Editoriale

Il lato oscuro degli italiani

Ormai è farsa continua. Abbiamo praticamente raggiunto l’incerta linea di confine che separa, e perciò intreccia e confonde, commedia e tragedia, riso e pianto, buonumore e disperazione. Tutta colpa di […]

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 4 marzo 2014

Ormai è farsa continua. Abbiamo praticamente raggiunto l’incerta linea di confine che separa, e perciò intreccia e confonde, commedia e tragedia, riso e pianto, buonumore e disperazione.

Tutta colpa di Renzi, Berlusconi, Grillo e di non so quanti altri attori del teatrino politico-istituzionale nostrano? Purtroppo no.

Come viene detto nell’Amleto, c’è del marcio in Danimarca, cioè in Italia. Renzi, Berlusconi e Grillo fanno il loro mestiere di incantatori di serpenti, ma che ne sarebbe di loro se noi non li votassimo, se non ci riconoscessimo nelle loro facce, se non li amassimo appassionatamente, soprattutto se li contrastassimo senza ambiguità?

La domanda non è soltanto legittima, è vecchia di almeno cinque secoli, quanti ne sono trascorsi dal giorno in cui Etienne de La Boétie scrisse il suo Discorso sulla servitù volontaria nel quale si chiedeva come mai – in nome di che cosa – folle sterminate di esseri umani preferissero essere schiavi di un tiranno piuttosto che uomini liberi. E concludeva affermando che forse la libertà non è altrettanto conveniente quanto la schiavitù.

È una conclusione oggi meno vera di ieri? Sappiamo tutti che no, che le cose non sono affatto cambiate. Soprattutto chez nous, dove l’attrazione per il cosiddetto «uomo forte», a furia di essere un’abitudine, è diventata una vocazione.

Secondo calcoli grossolani, i tre incantatori di serpenti sopra citati riescono a raccogliere il settantacinque per cento dei voti espressi dagli italiani: così, senza che da parte loro venga offerto alcun serio progetto di futuro, venga prospettato un solo traguardo di rilievo verosimile, unicamente in nome del loro presunto appeal.

Chiedo a un amico: ma perché ti piace Renzi? Risponde: perché è simpatico e ruspante, sa quel che vuole. Obietto: lui forse sa quel che vuole, ma perché non lo racconta anche a noi?

Faccio la stessa domanda a una militante di Forza Italia: ma che ci trova, signora, di così coinvolgente in Silvio Berlusconi? Risposta: tutto! È un grande statista, non ruba perché è ricco ed è anche un bell’uomo!

A un mio giovane congiunto, che vota per il Movimento 5 Stelle, rimprovero sistematicamente (quanto inutilmente) la sua passione per Grillo: possibile che non abbia in testa altra strategia che quella di trionfare, lui da solo, su tutto e su tutti? Ma chi si crede d’essere il tuo comico con quella sua faccia spiritata e quei riccioloni di narciso scatenato? Replica: faremo a tutti un culo così.

Siamo al trionfo del delirio auto-celebrativo. Al disconoscimento di ogni alterità.

Addio, logos. Altro che Etienne de La Boétie: oggi le cose vanno di gran lunga peggio di un tempo. Dappertutto, temo. Ma in special modo qui da noi dove santa romana Chiesa ci ha espropriato di ogni senso di responsabilità, degradandoci a sudditi da cittadini che eravamo (mi è capitato di scrivere un libro al riguardo, intitolato La fabbrica dell’obbedienza, il lato oscuro e complice degli italiani).

La sinistra è scomparsa. A metterla definitivamente fuori combattimento è stata la crisi economica che ha fatto emergere in maniera ancora più clamorosa che in passato la sua vacuità e inadeguatezza a rappresentare gli interessi dei ceti colpiti, la sua vocazione alla sudditanza e al compromesso.

Lo spettacolo stringe il cuore. Tanto più che, mentre nelle piazze televisive trionfa una pletora di unti dal Signore (se Renzi è il figlio, Grillo è lo spirito santo), la sinistra non riesce a intonare neppure un mea culpa, a elaborare neanche uno straccio di riflessione autocritica.

Come se nessuno fosse responsabile di niente, tutto fosse avvenuto per sentenza celeste e ormai non ci restasse che piangere.

A guardarsi intorno, si direbbe che il fascino perverso del catastrofismo ci abbia presi tutti al laccio: la piovra finanziaria, l’Europa dei forti, i nuovi schiavisti della mondializzazione produttiva sembrano aver eretto, tutti assieme, un muro impossibile da oltrepassare.

Ho partecipato alcune sere fa a una riunione di persone aventi alle spalle un onorevole passato di lotte democratiche, insomma di forte impegno politico. Non ho sentito echeggiare una sola parola di tipo propositivo, e ancor meno relativa agli errori commessi, ai comportamenti sbagliati, alle debolezze anche di tipo etico mostrate, si badi, non soltanto da questa o da quella organizzazione politica ma dai singoli, da tutti noi. Avrei voluto prendere la parola ma non ho osato, intimidito a mia volta dalla cupa atmosfera generale determinatasi, credo, in forza del prevalente sentire pessimistico dei presenti.

Siamo tutti veramente prigionieri di una situazione irrimediabile? Questo avrei voluto dire. Ma non soltanto questo. Avrei voluto parlare dei nostri errori, del fatto che la sinistra, come un pugile suonato, ormai non è più in grado di tutelare neppure il proprio patrimonio linguistico, come sta a dimostrare la spregiudicata appropriazione della parola «austerità» da parte di una destra europea tanto canaglia quanto truffaldina, che se ne è servita per conferire una parvenza di onorabilità ai propri diktat economici. E tutto questo senza che da parte degli economisti democratici si levasse un solo grido di protesta, una sola accusa di «furto ideologico».

Le parole, lo sappiamo tutti, sono importanti, scalfiscono le nostre coscienze. Soprattutto quando vengono ossessivamente reiterate come fanno i giornali ogni mattina con questo lemma abusivo, come fa la televisione, come fanno i politici, i cittadini e come facciamo inconsapevolmente noi stessi attribuendo in tal modo, senza ritegno, quarti di nobiltà a politiche che meriterebbero ben altre definizioni.

Le parole devono corrispondere esattamente alle cose: guai se ciò non accade. Mi vengono a mente alcuni straordinari versi di Juan Ramon Jimenez: Intelligenza, dammi/ il nome esatto delle cose!/ … che la mia parola sia/ la cosa stessa…

Per noi infatti era «la cosa stessa», soprattutto se ci si riferisce al contenuto etico della parola «austerità», che da sempre si contrappone a «dissolutezza» e «corruzione» ed è metafora di costumi irreprensibili. Apparteneva insomma al nostro vocabolario (chi più di noi può amare e praticare l’austerità?): abbiamo lasciato senza colpo ferire che diventasse l’altrui foglia di fico. Anzi peggio: che diventasse la nostra parola «nemica», la bandiera da abbattere.

Sveglia, sinistra, apri gli occhi!

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