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«Bergoglio ha spostato l’ottica dalla dottrina al sociale»

«Bergoglio ha spostato l’ottica dalla dottrina al sociale»

Intervista Parla Daniele Menozzi, professore di storia contemporanea alla Normale di Pisa

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 13 marzo 2018

Cinque anni consentono di tentare una prima «storicizzazione» del pontificato di papa Francesco. Ne parliamo con Daniele Menozzi, professore di Storia contemporanea alla Normale di Pisa, studioso del papato in età moderna e contemporanea.

Papa Francesco: continuità o rottura nella linea del papato novecentesco?

Il termine rottura implica mutamenti radicali, preferirei parole meno impegnative. Francesco realizza una svolta nell’orientamento che il papato propone alla Chiesa universale, riallacciandosi all’indirizzo di Giovanni XXIII sulla necessità di un aggiornamento. Roncalli intendeva metterla in grado di formulare il messaggio evangelico in termini adeguati agli uomini contemporanei, restituendole così quella capacità apostolica e quella forza d’attrazione di cui l’aveva privata la cultura intransigente. Roncalli ha aiutato la Chiesa ad uscire dall’egemonia della secolare cultura cattolica intransigente, Bergoglio la sta aiutando ad uscire dal neo-intransigentismo dei suoi due predecessori.

Dopo Wojtyla e Ratzinger, papi «anti-moderni», qual è l’atteggiamento di Francesco verso la modernità?

La proposta di Giovanni XXIII, esplicitata dal Concilio Vaticano II, era stata interpretata in chiave riduttiva da Giovanni Paolo II e ancor più da Benedetto XVI. L’aggiornamento ecclesiale non era stato respinto, ma inquadrato all’interno del tradizionale schema intransigente: pur riconoscendo alcuni valori moderni (libertà religiosa, uguaglianza tra le confessioni, diritti umani), la Chiesa non doveva rinunciare ad affermare che solo essa detiene, attraverso la retta interpretazione della legge naturale, la capacità di definire gli istituti fondamentali della vita collettiva. Alle sue prescrizioni tutti gli ordinamenti statali avrebbero dovuto conformarsi. Francesco non ha abbandonato questa prospettiva, contrapposta ad una modernità intesa come  autodeterminazione del soggetto. Ma ha spostato l’ottica. La Chiesa deve affrontare problemi prioritari rispetto all’introduzione nelle legislazioni pubbliche dei «principi non negoziabili»: la povertà di buona parte del pianeta; la globalizzazione della cultura del profitto che determina lo scarto delle persone; la persistenza della guerra nelle relazioni internazionali con la relativa minaccia nucleare; la tragedia delle migrazioni; la distruzione dell’ambiente.

Il fatto che Bergoglio sia latinoamericano ha un peso?

È importante. In America latina il riconoscimento della dignità della persona non si gioca tanto sull’accettazione delle rivendicazioni di autonomia dei soggetti, come in Europa, ma su temi come povertà, ambiente, violenza. Tuttavia occorre anche tener conto che Francesco è il primo papa del post Concilio a non aver partecipato personalmente all’assise. Il suo occhio non è quello di un protagonista, legato ad una determinata memoria di quell’evento e deciso ad usare gli strumenti a sua disposizione per imporla. Lo legge piuttosto con gli occhi di chi vuole coglierne il significato storico. Ed in effetti ne ha individuato un tratto decisivo: l’esigenza della Chiesa di mostrare agli uomini e alle donne di oggi la rilevanza del Vangelo per la loro stessa esistenza.

Quali i momenti più importanti di questo pontificato?

Molti, ma per sintesi ne elenco tre. Il Sinodo sulla famiglia, per l’apertura, sebbene limitata, ad un ascolto di tutto il popolo di Dio su tale materia. L’Anno santo, per la risignificazione della cerimonia almeno in due direzioni: decentralizzazione del governo della Chiesa (con l’apertura del Giubileo a Bangui) e via per i fedeli di individuare nella misericordia un tratto essenziale del Vangelo. Il messaggio per la pace 2017, per l’indicazione della nonviolenza attiva come strumento per la soluzione dei conflitti.

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