Suscita grandi aspettative anche tra i movimenti popolari il Sinodo sull’Amazzonia che sta affrontando in questi giorni in Vaticano la situazione della più grande foresta tropicale del mondo e dei popoli che la abitano, insieme alle sfide poste alla Chiesa dalla regione. Un interesse che si inscrive nell’ambito del dialogo permanente stabilito dai movimenti con il papa, considerato un alleato speciale nella lotta per le tre “T”, Tierra, trabajo y techo (terra, lavoro e casa), e che si è tradotto in un documento, il «Pronunciamento di Guaranema», rivolto ai vescovi riuniti nell’assemblea sinodale.

Frutto di una riunione tra i rappresentanti delle organizzazioni della regione amazzonica svoltasi il 2 e il 3 settembre presso la scuola nazionale del Movimento dei senza terra a Guaranema, in Brasile, il documento esprime le preoccupazioni delle realtà popolari sul «processo di appropriazione e sfruttamento di territori e beni comuni» segnato «dall’avanzare dell’agribusiness, dello sfruttamento minerario e petrolifero e delle grandi opere infrastrutturali».

Un processo a cui i popoli dell’Amazzonia oppongono il loro programma di «resistenza e vita», come ci hanno spiegato la brasiliana Gilvania Ferreira da Silva, dirigente del Movimento dei senza terra del Maranhão, e il venezuelano Jarvaz Ruiz González, militante del Psuv e responsabile del Forum sociale panamazzonico, giunti a Roma per consegnare il documento dei movimenti al presidente dell’Assemblea sinodale, il cardinal Pedro Barreto.

Quali sono le rivendicazioni dei movimenti popolari riguardo all’Amazzonia?

 

Gilvania Ferreira da Silva

 

Gilvania Ferreira da Silva – Esistono tre diverse visioni riguardo alla regione amazzonica. La prima è quella di una “Amazzonia senza popoli”, una visione che prescinde dai popoli che la abitano, come se si trattasse di cancellare qualsiasi presenza umana per garantirne la preservazione. La seconda è quella dell’appropriazione della foresta e del saccheggio delle sue risorse espressa da Bolsonaro e dai gruppi economici che lo sostengono, interessati a sfruttare la regione attraverso il disboscamento, lo sfruttamento minerario, le monocolture della soia e dell’eucalipto. E infine la nostra, quella di una “Amazzonia con i suoi popoli”, in cui la foresta e le popolazioni che in essa vivono, resistendo e difendendola, costituiscono un’unica realtà inseparabile. Una visione che esprime un’altra possibilità di vita in Amazzonia, a partire dall’agroecologia, dalle conoscenze ancestrali, dall’equilibrio tra la natura e i popoli della terra, delle acque e della foresta.

Cosa vi attendete dal Sinodo?

Jarvaz Ruiz González – In primo luogo, che si individui nel sistema capitalista il principale responsabile della devastazione di questo territorio così strategico per la stabilità climatica e ambientale del pianeta. Che si denunci la politica dei governi neoliberisti basata sull’accumulazione di capitale a scapito della vita, del terrirorio, dei boschi e dei fiumi. In secondo luogo, che sorga una proposta di lavoro per il post-Sinodo nel pieno rispetto della cultura dei popoli indigeni e della loro ancestralità.

Neppure i governi progressisti, però, sono incolpevoli rispetto allo sfruttamento dell’Amazzonia. Basti pensare all’impatto della diga di Belo Monte voluta da Dilma Rousseff…

G. F. – Pur realizzando grandi conquiste sociali, i governi del Pt, in quanto frutto di un patto di governabilità tra forze politiche di segno diverso, non sono stati in grado di operare una rottura del modello dominante, agroesportatore ed estrattivista. Opere come la diga di Belo Monte sul fiume Xingu o quella di Tucuruí sul fiume Tocantins sono proprio riconducibili al patto nazionale che ha reso possibile l’elezione di Lula. E che è terminato con il golpe contro Dilma Rousseff, il cui principale scopo era quello di sottrarre alla Petrobras lo sfruttamento del pre-sal (gli enormi giacimenti petroliferi al largo delle coste brasiliane), affidandolo ai privati.

I movimenti hanno fatto campagna in difesa della Petrobras, riprendendo il vecchio slogan di Getúlio Vargas «Il petrolio è nostro». Non è arrivato il momento di chiedere che il petrolio rimanga sotto terra?

G. F. – Si tratta di un processo graduale. Il primo passo è quello di opporsi allo sfruttamento del petrolio da parte delle transnazionali, di contrastare la privatizzazione in atto non solo della Petrobras ma di tutte le imprese brasiliane, di scongiurare la distruzione di ogni politica pubblica. Ma poi bisognerà ripensare l’attuale progetto di sfruttamento del suolo e del sottosuolo, abbracciando un’altra prospettiva di generazione di energia. Basti pensare alle potenzialità del Nordest, con i suoi nove mesi di sole. E questa coscienza si sta sempre più affermando tra i movimenti popolari.

Qual è invece la situazione dell’Amazzonia venezuelana? I dati indicano che il paese presenta il maggior numero di miniere illegali della regione e che il progetto dell’Arco Minero dell’Orinoco lanciato da Maduro ha incrementato lo sfruttamento dell’oro e di altri minerali con un impatto ambientale molto serio.

 

Jarvaz Ruiz González

 

J. R. G. – Nello stato di Amazonas, il secondo più grande del paese, si incontra la parte di foresta meglio conservata e preservata di tutta la conca amazzonica. Esistono, è vero, miniere illegali – opera delle mafie e dei paramilitari di Colombia e Brasile che agiscono per conto delle transnazionali – ma il governo sta facendo molti sforzi per contrastarle. Diverso è il caso dello stato di Bolivar, dove è stato lanciato il progetto dell’Arco Minero. Qui, in risposta a uno sfruttamento minerario dominato dalle mafie da almeno 40 anni, il governo ha cercato di riaffermare la sua sovranità, intervenendo per regolamentare la situazione e per assicurare che parte dei proventi siano reinvestiti a vantaggio della popolazione. Su questo tema si sta aprendo un dibattito nel paese, per capire come affrontarlo e decidere quali aree si possano sfruttare e quali no.

Ma il modello estrattivista non è incompatibile con l’ecosocialismo di cui parlava Chávez?

J. R. G. – Non dimentichiamoci che la massima responsabilità del modello estrattivista è dei paesi del primo mondo. Quello che stiamo cercando di fare noi è costruire un’alternativa nel segno del buen vivir indigeno e dell’ecosocialismo, contro il modello dell’agribusiness, dell’idrobusiness, dell’industria estrattivista. In questo senso, l’embargo imposto dagli Usa ha creato tante difficoltà, ma anche alcune cose positive, obbligandoci a riscattare la nostra sovranità alimentare, sulla base di una produzione agricola autoctona e senza veleni chimici, portata avanti dai piccoli e medi produttori attraverso i consigli contadini, le strutture di base del territorio. Siamo già riusciti a garantire la produzione nazionale di riso e mais fino al primo trimestre del 2020. Una cosa prima impensabile a causa della dipendenza dalla rendita petrolifera e della conseguente distruzione dell’agricoltura venezuelana.