Quando i distributori riapriranno domani dopo lo sciopero di 48 ore gli automobilisti potrebbero trovare un altro aumento dei prezzi. Per il ministero dell’Ambiente quello della benzina costa più 0,88% (1,83 euro circa), il gasolio più 0,61% (1,87 euro circa), mentre è calato dello 0,23% il Gpl (i dati sono stati comunicati il 23 gennaio). Nello stesso periodo dell’anno scorso, quando al governo c’era Draghi, il prezzo della benzina era di 1,75 euro al litro, quello del gasolio di 1,62 euro e il Gpl di 0,81. Era l’effetto del taglio delle accise, finanziato con i soldi pubblici.

IL PROBLEMA È POLITICO, non solo contabile. L’aumento è in gran parte l’effetto della decisione del governo di annullare il taglio delle accise nella legge di bilancio. L’esecutivo ha giustificato questa azione sostenendo di non avere soldi per coprire la spesa, mentre cala il prezzo del petrolio e delle altre materie energetiche. Ma ha scaricato la sua responsabilità sui benzinai, colpevoli di «speculazione». E quelli hanno risposto con uno sciopero. Che fa male.
LA PRESIDENTE del Consiglio Giorgia Meloni ha difeso il provvedimento e ha affermato di non volere tornare indietro. Ieri è stata smentita da un’altra giravolta in tre settimane di confusione e incertezza a tutti i livelli. L’ultimo atto di un pasticcio politico è stato servito quando è stata proposta l’ultima mediazione. Un classico tentativo di dividere il fronte degli scioperanti composto da Faib, Fegica e Figisc/Anisa che dicono di rappresentare l’80% dei 22 mila distributori italiani.

FAIB HA RISPOSTO tagliando di un giorno la protesta. Il ministro «delle imprese e del made in Italy» Adolfo Urso ha assicurato l’abrogazione del cosiddetto «cartellone» sostituito con un QR-Code, una App o dispositivi luminosi a distanza per comparare i prezzi e evitare le multe annunciate. «Troppo poco e troppo tardi per revocare lo sciopero» hanno risposto Fegica e Figisc/Anisa. «Le modifiche non sono sufficienti e sono ormai nelle mani del parlamento». Per loro il problema è quello del danno reputazionale, più che quello volatile sugli sconti o non sconti sulle multe, cartelli o non cartelli da esporre. In una politica-spettacolo, basata sulle identità corporative, e i relativi interessi è una questione rilevante. «È falso e inaccettabile l’idea di una categoria di lavoratori che speculano sui prezzi dei carburanti». Dopo quelli dei sindacati di base (2 dicembre) e quello di Cgil e Uil (16 dicembre) Meloni ha dunque incassato il terzo sciopero in quattro mesi di mandato, forse quello che fa più male politicamente, considerati gli interessi e le prospettive sociali delle destre estreme. Lo scioperopotrebbe avere anche esiti legali. Il Codacons ha presentato un esposto alla Procura di Roma.

BALNEARI. Tutt’altra sensibilità preventiva sta dimostrando il governo su un’altra questione politica delicatissima per la sua base sociale. Dicono costituita da «30 mila imprese». Ieri, dopo un vertice affannato, è stato deciso un altro rinvio con annesso «tavolo programmatico». Tradotto: un’altra proroga della direttiva europea che impone le gare sulle concessioni balneari. La carne viva degli «imprenditori» che usano il patrimonio statale per pochi euro, di quelli che cementificano e privatizzano le coste. Lo scopo è salvaguardare i fatturati. Un’idea del mercato posseduto da rentier, e non solo piccoli proprietari, rispetto a quello basato su un’idea di concorrenza. Due modi per rimuovere il fatto che le spiagge potrebbero essere anche beni comuni.