Ci sono domande che ancora attendono risposta quarantacinque anni dopo l’omicidio di Benedetto Petrone, giovane militante comunista assassinato a Bari il 28 novembre del 1977. «Perché Giuseppe Piccolo, colui che lo ferì a morte con una coltellata, da molti definito un provocatore, un infiltrato, un malato di mente, si trovava presso la sede del Msi la sera del 28 novembre del 1977?». Questo è uno di quegli interrogativi sulla cui base il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, Angelo Salerno, ha deciso che occorre tenere aperte le indagini per stabilire gli eventuali complici, mai puniti, di quell’assassinio.

LA PROCURA guidata da Roberto Rossi aveva chiesto nel novembre scorso l’archiviazione del caso, anche se, nella richiesta, la Pm Grazia Errede aveva parlato del «risultato di una azione collettiva preordinata espressione dello squadrismo fascista». Ora, all’esito dell’udienza preliminare che si è celebrata il 4 luglio scorso, dopo che sono state ascoltate le parti civili, il Gip si è pronunciato, rigettando la richiesta di archiviazione chiesta dalla procura. Perché ha ritenuto il reato non prescritto, aggravato «dai motivi abietti», si legge nella pronuncia del GIP. Ora la Procura ha sei mesi di tempo per decidere se chiedere di nuovo la chiusura delle indagini, oppure, eventualmente, di portare a processo nove persone, attualmente indagate.

AL DI LÀ DEI RISVOLTI penali ulteriori ombre pesano su quell’episodio, che per molti anni è stato considerato una rissa tra gruppi politici opposti, ma non un vero e proprio agguato fascista. «Chi aveva radunato e organizzato il gruppo di decine di estremisti di destra che quella sera si era radunato, armato e mascherato, nell’androne di quella sede?». E ancora: «Chi aveva conferito a Piccolo l’autorità di guidare la carica di quel gruppo contro i giovani di sinistra?». Sono domande che hanno fatto riaprire le indagini sul delitto di Benny Petrone 45 anni dopo, grazie ad una memoria presentata al tribunale della città pugliese dall’avvocato Michele Laforgia, che assiste la locale Associazione nazionale partigiani.

LE INDAGINI OGGI, si diceva, sono giunte ad un ulteriore snodo decisivo. «Solo quando saranno chiarite queste circostanze, e tutte le relative responsabilità, Benedetto Petrone potrà riposare in pace», dice il legale, che ancora si chiede: «Come mai, in un periodo di scontri quotidiani e altissima tensione, quella sera non era presente e comunque non intervenne nessun esponente delle forze dell’ordine durante le ripetute scorribande dei neofascisti in assetto paramilitare?».

Non soltanto. Nella richiesta di archiviazione del caso avanzata dalla procura, si legge che nei pressi di corso Vittorio Emanuele, a pochi metri di distanza da dove si trovava allora a Bari la sede del Movimento sociale italiano e dove erano avvenuti i tragici avvenimenti la sera del 28 novembre del 1977, si trovava un agente dell’Ufficio Politico della Questura di Bari, il quale resosi conto di quanto stava accadendo, si allontanò per telefonare. «Eppure nessuno intervenne per tutto il pomeriggio, fino a quando, a seguito dell’ennesima scorreria in armi, fu ucciso Benedetto Petrone, raggiunto dai suoi aggressori – e non dal solo Piccolo – a causa della sua zoppia, e ferito Franco Intranò». Conclude il legale: «È legittimo, anzi doveroso, chiedersi perché».

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PROPRIO LA TESTIMONIANZA CONSEGNATA ai magistrati di Bari, nel marzo del 2020, da Francesco Intranò, a distanza di più quaranta anni da quei fatti, è stata decisiva per la riapertura delle indagini. L’uomo ha raccontato di essere stato colpito da una coltellata all’ascella «in un momento immediatamente successivo al ferimento di Petrone»; e, inoltre, numerosi altri testimoni hanno confermato ai giudici che quella sera del ’77, a Bari, all’interno della sede della Federazione provinciale del Msi, c’erano una quarantina di persone armate.

La stessa testimonianza di Luigi Picinni, allora dirigente della giovanile dell’Msi, è stata definita dalla Pm che pure ne ha chiesto in aula l’archiviazione: «Obiettivamente inquietante». Piccinni ha riferito durante l’interrogatorio: «ho visto Pino Piccolo (l’assassino, Ndr) da me ben conosciuto afferrare per le spalle con la mano sinistra uno dei tre comunisti e, nel contempo, sferrare un colpo con direzione dalla destra verso la sinistra verso il ventre dell’avversario, ricevendone l’impressione che si trattava di tipico colpo con arma da punta».

PINO PICCOLO fu condannato in secondo grado dalla Corte d’Assise d’Appello di Bari con pena ridotta a 16 anni di reclusione (scontati in carcere fino al suicidio in cella avvenuto nel 1984) e con una sentenza che impresse il timbro storico sulle responsabilità dei dirigenti della destra missina barese. Quelle colpe storiche riconosciute dai giudici proprio nella sentenza di condanna dell’uomo: «In considerazione del fatto che persino da parte di coloro i quali avevano la responsabilità dei partiti politici e delle organizzazioni giovanili, nulla risulta si facesse per indurre i giovani simpatizzanti a comportamenti più responsabili o per censurare le azioni illecite», scrissero.

LA RIAPERTURA del caso giudiziario di Benny Petrone è anche una occasione per continuare a scavare nella memoria del Msi, oltre le falsificazioni e i revisionismi sulla storia di quel partito. Il presidente del Senato Ignazio La Russa che, in occasione del 76esimo anniversario della fondazione del Msi, ha ricordato il padre «fra i fondatori del Movimento Sociale Italiano in Sicilia e che scelse il Msi per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana».

La sottosegretaria alla Difesa Isabella Rauti, figlio di Pino, ultimo segretario del Msi dal’90 al ’91 ha ribadito: «Onore ai fondatori ed ai militanti missini», sullo sfondo c’è quella concezione ormai diffusa in più della metà dell’arco parlamentare attuale, secondo la quale «il Movimento sociale consentì a tanti italiani di partecipare alla vita politica del dopoguerra accettando i valori costituzionali e la democrazia». Tante altre vicende ebbero come protagonisti i dirigenti neofascisti e missini e ci dicono che non fu esattamente così. È la storia d’Italia a raccontarlo, ancor prima delle eventuali sentenze. E pare proprio che non andò così quella sera a Bari, nel 1977, quando venne assassinato Benny Petrone.