In uno dei suoi ultimi scritti, nel 1964, Ernesto De Martino introdusse una fertile distinzione circa le «apocalissi» che gli esseri umani sono in grado di immaginare: culturali e psicopatologiche. In entrambi i casi, sono rappresentazioni che hanno a che fare con la fine. Però, mentre le apocalissi culturali contemplano la possibilità che la fine sia al tempo stesso un compimento (e implichi una rivelazione, una rivoluzione, un riscatto), in quelle psicopatologiche la fine assume la forma del disfacimento, del completo smarrimento del senso, o – per dirla con De Martino – del «mutamento di segno delle stesse possibilità dell’umano, su tutto il fronte dell’umanamente e intersoggettivamente valorizzabile». Dunque, l’apocalisse psicopatologica è una catastrofe che non genera nulla; è – per gli umani – un vero termine ultimo.

Più o meno negli anni in cui De Martino ragionava su queste rappresentazioni dell’eschaton (cioè, del termine ultimo), Thomas Kuhn andava elaborando una concezione assai meno tragica, anzi decisamente distaccata, per descrivere le svolte paradigmatiche che hanno punteggiato la cultura umana. Cambiamenti radicali nei concetti di base e nelle pratiche caratteristiche delle diverse culture hanno portato a visioni del mondo radicalmente nuove, spesso incompatibili con le precedenti. Ma alle fasi di instabilità che contraddistinguono queste rivoluzioni è seguito in genere un riassestamento, nel corso del quale i nuovi concetti base e le nuove pratiche si sono imposte come norma; sono diventate senso comune, paradigma scontato e condiviso.

Già nel suo libro del 2020, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Benjamín Labatut ci aveva portato a sospettare che le rivoluzioni scientifiche del Novecento siano state assai meno illuminanti – per il senso comune – di quanto vorrebbe l’apologia. Anzi: quelle rivoluzioni hanno progressivamente portato a descrivere il mondo per il tramite di linguaggi formali del tutto astrusi, lontani da quello ordinario. Le narrazioni correnti, espresse attraverso simboli astratti, risultano incomprensibili ai più e – spesso – perfino agli specialisti del settore. Se dunque fosse vero che «abbiamo smesso di capire il mondo», si potrebbe sospettare che siamo molto vicini a uno smarrimento finale del senso, circa il reale che ci circonda: a una sorta di eschaton – per dirla con De Martino – di ciò che è «umanamente e intersoggettivamente valorizzabile».

Il nuovo libro di Labatut, MANIAC (traduzione di Norman Gobetti, Adelphi, pp. 361, € 20,00) si spinge ancora più in là. Allude al fatto che le costruzioni più raffinate dell’intelletto umano – già a questo stadio dello sviluppo tecnico-scientifico – possano assumere i caratteri del mitico Golem, creato per servire, ma in grado di sfuggire al controllo del suo creatore. Il risultato di questa eterogenesi dei fini tenderebbe ad assumere allora i caratteri della patologia: saremmo esposti a qualche tipo di apocalisse psicopatologica, che ha già assunto i tratti di un incombente destino.

Nel rappresentare la fine del mondo nella quale viviamo, Labatut mette in scena quattro caratteri principali: il fisico Paul Ehrenfest, morto suicida; il matematico John von Neumann, considerato da molti come l’uomo più intelligente del XX secolo (ma giudicato anche un inetto, un uomo orribile, una mente infantile, un maniaco, una persona pericolosa); Lee Sedol, maestro del gioco del go, tra i più creativi e dotati della sua generazione; Dennis Hassabis, Ceo e co-fondatore di DeepMind, il laboratorio di ricerca sull’intelligenza artificiale assorbito da Google nel 2014. Ma il vero convitato di pietra è la conoscenza tecnico-scientifica, al suo sviluppo attuale, ovvero quando questo dominio sembra per certi versi essersi liberato dagli esseri umani che l’hanno prodotto e garantito, assumendo forme e caratteri che i suoi creatori rischiano di non poter controllare.

Paul Ehrenfest è appunto, nel libro, la prima vittima di una forma di psicopatologia,  riferibile – per sua stessa ammissione – a una sorta di eschaton cognitivo. Alla tragica fine di questo fisico concorrevano, per la verità, elementi ulteriori: il fatto di temere per la propria origine ebrea, quando il nazismo avanzava; il fatto di avere un figlio down, mentre prendevano quota prospettive radicali di eugenetica; il fatto di non considerarsi all’altezza di molti suoi amici e colleghi, i quali lo interpellavano per la sua abilità nel mettere in luce i punti deboli e quelli forti di una congettura teorica, ma ai quali non si sentiva in grado di fornire idee originali. Nella sua lettera di commiato indirizzata agli amici più stretti, Ehrenfest fu molto esplicito: «Negli ultimi anni mi è diventato sempre più difficile seguire con comprensione gli sviluppi della fisica. Dopo averci provato, sempre più stanco e lacerato, alla fine mi sono arreso alla disperazione… Non ho altra possibilità “pratica” che il suicidio… Perdonatemi».

Di tutt’altra pasta era von Neumann. Sicuro di sé, amante del potere e della bella vita, elegante, geniale, in grado di dare contributi fondamentali alla matematica e alla fisica teorica, alle scienze cognitive, e alla tecnologia applicata, progettando e realizzando dispositivi di calcolo automatico, e dedicandosi con maniaca passione alla strategia militare, alla meteorologia, alla biologia, fino a gettare le basi teoriche per la costruzione di macchine auto-replicanti. Eppure, anche l’arroganza di questa mente eccezionale – che aveva una fiducia illimitata nella potenza della matematica, e una propensione ad analizzare ogni aspetto della realtà in termini formali – risultò sconfitta da risultati venuti progressivamente alla luce nel suo stesso dominio di studioso: quando, proprio di fronte a lui, Kurt Gödel dimostrò che si possono costruire verità matematiche indimostrabili (e che dunque la matematica è tecnicamente incompleta); oppure quando la pretesa di formalizzare i fenomeni metereologici (e farne semmai un’arma potente, da scagliare contro nemici) si infranse contro la comprensione più approfondita dei fenomeni caotici, e dei limiti di calcolo degli elaboratori; oppure quando apparve chiaro che le cosiddette «teorie computazionali della mente» non erano la strada giusta per riuscire a simulare l’umana potenza mentale, ma bisognava piuttosto guardare ai sistemi in grado di apprendere, di correggersi, di imparare dagli errori.

Arriviamo all’ultima parte del libro, un avvincente resoconto della battaglia condotta tra il 9 e il 15 marzo del 2016 da Lee Sedol, detto «Pietra Forte», maestro di go del 9° dan, contro AlphaGo, un’intelligenza artificiale costruita nel laboratorio DeepMind, sotto la direzione di Dennis Hassabis e della sua squadra. Lee perse quell’epica la battaglia. Ma «dietro» ad AlphaGo non c’era soltanto un repertorio di conoscenze inimmaginabile per un essere umano, consistente in tutte le partite giocate e documentate fino ad allora nella letteratura. AlphaGo aveva «imparato» soprattutto «da solo», giocando contro se stesso, perfezionando le sue strategie, poi allenando una seconda intelligenza artificiale perché attribuisse un valore alle sue mosse, analizzando il terreno di gioco e valutando le probabilità di vittoria.

Dopo tre anni, in età ancora giovane per il gioco del go, Lee si ritirò dalle competizioni. Nella sua intervista di commiato, concluse: «l’intelligenza artificiale mi ha dato il colpo di grazia. È semplicemente imbattibile … Anche se diventassi il giocatore migliore che il mondo abbia mai conosciuto, c’è un’entità che non può essere sconfitta».

Nella sua ultima lettera al compagno di liceo Eugene Wigner, John von Neumann qualcosa del genere l’aveva adombrato: «il progresso tecnologico sempre più rapido sembra in procinto di avvicinarsi a una singolarità fondamentale, un punto di non ritorno nella storia della nostra specie oltre il quale l’esistenza umana come la conosciamo non potrà continuare … Il pericolo non sta nella natura particolarmente distruttiva di una specifica invenzione. Il pericolo è intrinseco. Per il progresso non c’è cura».