Le celebrazioni per la 76esima giornata di Indipendenza dello Stato di Israele questo martedì si sono svolte sotto tono, senza fuochi d’artificio e nel malcontento generale. Le sobrie cerimonie pubbliche che hanno avuto luogo erano difficilmente distinguibili da quelle indette il giorno precedente in memoria dei caduti e il primo ministro Netanyahu non ha presenziato a nessun evento.

Sirene e razzi in diverse parti del paese hanno fatto da sfondo alle gite e alle tradizionali grigliate di chi ha scelto di non rinunciare ai festeggiamenti. Cittadini e autorità del nord del paese hanno protestato con gli sfollati per attirare l’attenzione delle istituzioni che li hanno abbandonati al pericolo nella totale precarietà e altre manifestazioni si sono tenute in tutto il paese in particolare in supporto alle famiglie degli ostaggi.

IL MINISTRO della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir è intervenuto durante una marcia tenutasi a Sderot per il reinsediamento israeliano nella Striscia di Gaza, dove ha affermato: «Affinché il problema non si ripresenti, bisogna fare due cose: ritornare nella Striscia di Gaza e incoraggiare la partenza volontaria dei residenti di Gaza. Questo è morale, razionale e umanitario».

Ha aggiunto: «Mi vergogno di essere l’unico nel governo ad aver votato contro il trasferimento delle spedizioni (di aiuti, ndr) a Gaza attraverso Kerem Shalom. Volete umanitarismo? Restituite gli ostaggi». Alla marcia hanno preso parte alcune centinaia di esponenti del Partito sionista religioso intenzionati a riprendere il possesso dei territori evacuati nel 2005 per iniziativa dell’allora primo ministro Ariel Sharon.

Contemporaneamente migliaia di palestinesi di cittadinanza israeliana accompagnati da ebrei attivisti hanno marciato con le bandiere palestinesi nella Galilea meridionale per commemorare il Giorno della Nakba iniziata nel 1948. I partecipanti hanno chiesto la cessazione della guerra e dell’occupazione e la possibilità di fare ritorno ai loro paesi d’origine. Già da tempo eminenti voci di accademici si ergono per imporre l’attenzione sulla Nakba quale tassello mancante della sequenza primaverile che comincia con il Giorno della Shoah e finisce con quello dell’Indipendenza.

Se lo Stato cerca di impedire che la catastrofe palestinese, che ha avuto inizio nel 1948 e si protrae ancora oggi a causa dell’ingrata occupazione israeliana, faccia capolino nel discorso pubblico, preziose organizzazioni come B’Tselem, Breaking the Silence e Zochrot da anni si prodigano instancabilmente al fine di integrare nella narrativa israeliana il riconoscimento della Nakba come tragedia direttamente collegata agli eventi del ’48.

DOPO IL 7 OTTOBRE tuttavia le medesime organizzazioni vengono osteggiate con maggiore violenza e i loro membri molestati e minacciati. Anche ieri non pochi intellettuali e politici hanno espresso serie preoccupazioni per il futuro del paese persino nell’eventualità dell’insediamento di un nuovo governo. «Deve essere la guida del paese a servire la popolazione e non viceversa», ha scritto sul quotidiano Haaretz la ex leader del partito di sinistra Meretz, Zehava Galon.

Certamente il disaccordo e le frizioni tra le diverse fazioni ebraiche, che sembravano essersi riconciliate e ricompattate dopo i massacri di Hamas, sono indice di pluralismo ma nel contempo indeboliscono Israele al suo interno rendendo difficile immaginare la possibilità di formare un nuovo governo di unità nazionale anche qualora si andasse a elezioni anticipate.