Continua a far discutere la consegna di sofisticati sistemi missilistici di difesa aerea HQ-22 SAM made in China, arrivati sabato scorso all’aeroporto civile Nikola Tesla di Belgrado con sei Y-20 da trasporto.

La notizia, rimbalzata sui social e su alcuni media locali indipendenti, è stata confermata lunedì da Pechino. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, ha spiegato che si è trattato di una fornitura militare in termini di normali «progetti di cooperazione» bilaterale «che non hanno nulla a che vedere con la situazione attuale» in Ucraina.

L’ESERCITO POPOLARE di liberazione, ha aggiunto il portavoce, «ha di recente effettuato la consegna già programmata in precedenza».

In effetti i missili cinesi arrivati in Serbia, primo paese in Europa a dotarsi di questo tipo di missili, erano stati ordinati nel 2019, ma la tempistica della consegna, nel pieno del conflitto ucraino e dei timori di un effetto domino nei Balcani, ha reso la vicenda più controversa.

Già nel 2020 Washington aveva cercato di dissuadere Belgrado dall’acquisto del sistema missilistico cinese e aveva lanciato un avvertimento alla Serbia, sostenendo che l’adesione all’Ue implicava l’uso di sistemi difensivi con standard occidentali.

UN MONITO caduto nel vuoto a cui aveva fatto seguito nell’agosto dello stesso anno, la consegna a Belgrado di droni di fabbricazione cinese, un unicum tra i Paesi europei.

La vicinanza della Serbia alla Cina, cementata ancor più durante la pandemia con la diplomazia delle mascherine prima e dei vaccini poi, non mette in discussione – almeno nelle intenzioni del presidente serbo, Aleksandar Vucic – il rapporto con l’Occidente, quanto quello con l’alleato storico, la Russia.

Un’alleanza divenuta in questi anni per Belgrado sempre più difficile da gestire. Da un lato, la propaganda filo-russa, trasmessa, seppur a correnti alterne, sui media filo-governativi, è stata ed è tuttora funzionale al mantenimento del potere da parte della leadership serba.

Dall’altra Belgrado teme che Mosca possa rappresentare un ostacolo alla risoluzione delle questioni irrisolte nell’area, in particolare il Kosovo e la Bosnia-Erzegovina.

NEGLI ULTIMI ANNI quindi si è assistito ad un tentativo da parte della Serbia di sostituire l’alleanza russa con quella cinese, un tentativo che ha ancor più ragion d’essere ora che aumentano le pressioni dell’Occidente perché la Serbia allinei la propria posizione sulla guerra in Ucraina a quella di Ue e Stati Uniti.

Finora infatti la Serbia ha avuto un atteggiamento ambivalente: da un lato, si è ben guardata dall’imporre sanzioni alla Russia, ma dall’altro ha votato a favore sia della risoluzione dell’Onu di condanna dell’aggressione russa all’Ucraina e dell’espulsione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite.

Ora che le elezioni hanno confermato Vucic alla guida del paese, l’Occidente si aspetta da Belgrado una presa di distanza più netta dall’alleato russo. Cosa che avverrà, gradualmente, ma non senza quella contropartita chiamata Cina.

IL PUNTO LO CENTRA in pieno il premier del Kosovo, Albin Kurti, che ha dipinto la Serbia come «in preda al panico» perché, è il ragionamento del leader kosovaro, Belgrado si rende conto di non poter giocare su più tavoli, come fatto finora.

Kurti, che ha chiesto agli Stati Uniti di accelerare nell’adesione del Kosovo alla Nato, ha poi lanciato un allarme sulle ricadute della corsa alle armi di Belgrado.

Un timore non infondato: secondo un rapporto del Belgrade Centre for Security Policy, la Serbia, la cui spesa militare è in aumento dal 2016, è l’unico paese dei Balcani ad aver speso più del 2% del Pil nella difesa, con un un notevole balzo in avanti registrato nel 2021. Non certo un segnale di distensione in un’area sull’orlo del precipizio.