Internazionale

Beirut città aperta in un paese senza pace

Un anziano libanese sfollato insieme alla nipotina per le strade di Beirut foto Ap/Marwan NaamanUn anziano libanese sfollato insieme alla nipotina per le strade di Beirut – foto Ap/Marwan Naaman

Tremenda vendetta Il Libano. da sempre preda degli interessi locali e internazionali, passa da una crisi all’altra. Ora vive l’ennesima guerra con il suo bagaglio di sfollati, morti e povertà, stretto tra l’invasione di terra israeliana vera e propria e il pugno duro di Hezbollah

Pubblicato circa 12 ore faEdizione del 5 ottobre 2024
Sabato AngieriINVIATO A BEIRUT

A Beirut è difficile capire dove inizia la crisi attuale e dove finiscono quelle precedenti. Forse perché nella storia contemporanea dell’intero pianeta è difficile trovare un contesto simile a quello del Libano. Un Paese diviso, costantemente sull’orlo di una guerra civile e sottoposto alle mire degli stati confinanti e delle grandi potenze globali.

I PALAZZI della capitale portano ancora i segni di lotte intestine lunghe decenni, dell’occupazione israeliana e della devastante esplosione del 2020 nel porto. Ferite che non si sono mai rimarginate del tutto, che i vertici delle varie fazioni religiose e delle potenze straniere non hanno mai voluto consegnare al passato. D’altronde, come si potrebbero storicizzare gli ultimi decenni visto che oggi, mentre scriviamo, il Libano è di nuovo in guerra?

Il ronzio delle eliche dei droni israeliani accompagna ogni passo, in questi giorni di crisi. Si attende l’invasione vera e propria ma intanto la capitale libanese si sta trasformando in un enorme campo profughi a cielo aperto. Un milione e 300mila persone hanno già abbandonato le proprie case secondo le autorità libanesi, un quarto di queste avrebbero cercato scampo verso il confine siriano. «Non sappiamo cosa fare, non abbiamo nessun posto dove andare, speriamo solo che qui non bombardino mai», ci raccontano i civili sulla Corniche, il lungomare di Beirut, mentre i boati dei bombardamenti di Tel Aviv risuonano minacciosi da sud. Di giorno fa ancora molto caldo, ma sono iniziate le prime piogge e dopo il tramonto l’umidità e il vento freddo rendono la vita in strada molto dura. «Non c’è altra soluzione, meglio che rischiare di essere sepolti da una bomba».

DALL’8 OTTOBRE 2023 i vertici di Tel Aviv non hanno mai perso occasione per dichiarare pubblicamente che «Hezbollah sarebbe stato il prossimo» e che i miliziani del Partito di Dio non si azzardassero ad approfittare della guerra a Gaza per attaccare Israele perché la risposta dello stato ebraico sarebbe stata «definitiva».

HEZBOLLAH, dal canto suo, ha continuato a condannare «il genocidio in corso a Gaza da parte del governo sionista» e ha dichiarato che finché non ci sarebbe stata una tregua nella Striscia avrebbe attaccato il territorio israeliano. E così è iniziato lo scambio di colpi d’artiglieria tra le postazioni nel sud del Libano e Israele dove negli anni le schermaglie intorno alla Linea blu non si sono mai davvero fermate. Il primo risultato dei bombardamenti incrociati è stato l’evacuazione forzata di oltre 70mila residenti israeliani dalle regioni del nord dello stato ebraico, principalmente dal distretto settentrionale (Nazareth) e da Haifa.

Le forze armate di Tel Aviv hanno sempre risposto, colpendo «le postazioni di lancio di Hezbollah» o delle aree civili oltre la frontiera dove l’intelligence di Tel Aviv riteneva che si trovassero i miliziani.

Secondo il quotidiano libanese in lingua francese L’Orient-Le Jour, dall’8 ottobre 2023 al primo ottobre 2024 Israele ha causato 1.873 morti e 9.134 feriti in Libano e solo nell’ultima settimana si contano almeno altre 200 vittime.

Secondo Israele il punto di svolta è stato l’attacco del 27 agosto 2024 sul campo di calcio della città drusa di Majdal Shams, nelle Alture del Golan occupato dal ’67. Il bilancio è stato di 11 morti, tra cui bambini e adolescenti di età compresa tra i 10 e i 16 anni, e di 34 feriti. I vertici di Tel Aviv hanno subito accusato Hezbollah, ma il partito libanese ha sempre negato ogni coinvolgimento. In ogni caso il 30 luglio seguente i caccia dell’aviazione israeliana hanno bombardato l’ultimo piano di un edificio residenziale nel quartiere di Dahieh, nella periferia meridionale di Beirut, considerato la «roccaforte di Hezbollah». Il raid ha provocato la morte di uno dei massimi comandanti del Partito di Dio, Fuad Shukr, che per il governo israeliano era stato il mandante della strage di Majdal Shams. In realtà, prescindendo dalla strategia comunicativa del governo di Benyamin Netanyahu, Shukr era un obiettivo al di là di ogni suo possibile ruolo nella strage dei drusi.

POCO TEMPO dopo è risultato evidente che lo stato maggiore israeliano avesse messo a punto un piano per decapitare i vertici di Hezbollah e passare alla resa dei conti definitiva.

Il 17 settembre quasi 3mila persone sono rimaste ferite, molte in modo grave, e almeno 12 sono morte (ma la stima fornita da Hezbollah appare decisamente troppo bassa) nell’esplosione simultanea dei cercapersone che il partito sciita aveva da poco acquistato per sostituire i telefoni cellulari, considerati «poco sicuri». Tra i feriti anche l’ambasciatore iraniano Mojtaba Amani.

La comunità internazionale ha subito guardato a Tel Aviv come responsabile dell’attentato ma le autorità israeliane continuano a negare ogni coinvolgimento. Dato il contesto e gli schieramenti in campo, la responsabilità israeliana appare evidente, nonostante sia altrettanto scontato che il Mossad si sia servito di infiltrati sia all’interno del partito libanese sia nel governo di Teheran, che di Hezbollah è il vero deus ex machina nonché principale finanziatore. In contemporanea il gabinetto di guerra ha annunciato che sul fronte nord la priorità era diventata «il rientro degli sfollati negli insediamenti nel nord di Israele».

Il 20 settembre un altro attacco missilistico a Dahieh ha ucciso Ibrahim Aqil, comandante di uno dei reparti d’élite di Hezbollah (denominato Redwan), Ahmad Mahmoud Wahabi, alto ufficiale della milizia e almeno altri 14 altri ufficiali di primo piano. Nel raid 45 civili hanno perso la vita, almeno altri 70 feriti. Tre giorni dopo la situazione è precipitata definitivamente. Le forze israeliane hanno condotto oltre 1.500 raid in tutto il Libano, uccidendo almeno 558 persone e ferendone quasi 1.900.

TRA IL 23 E IL 27 settembre l’aviazione israeliana ha continuato a bombardare Beirut e i suoi sobborghi meridionali uccidendo Ibrahim Qubaisi, il comandante della divisione missilistica di Hezbollah (24 settembre), Mohammad Surur, capo dell’unità dei dronisti (26) e infine Hassan Nasrallah, il capo supremo del partito sciita.

«I muri della camera da letto si sono mossi – racconta un residente del quartiere Shiyah, nel sud della capitale – Una cosa del genere l’avevamo sentita solo durante l’esplosione al porto del 2020». Nasrallah era al comando di Hezbollah da 32 anni e per eliminarlo Israele non ha esitato a lanciare 85 bombe a perforazione da diverse tonnellate che hanno scavato profonde voragini e fatto tremare tutta la capitale. Dal primo ottobre Israele ha annunciato l’inizio delle operazioni di terra e lo stesso giorno otto soldati dei reparti d’avanguardia sono stati uccisi da Hezbollah in un’imboscata.

Per l’agenzia di rating finanziario Standard & Poor’s, «la perdita di vite umane, i danni alle infrastrutture, l’aumento dei costi fiscali della guerra, lo sfollamento della popolazione e il calo delle entrate turistiche, insieme al cambiamento delle dinamiche politiche dovuto all’indebolimento di Hezbollah, eserciteranno una forte pressione sull’economia libanese». In altri termini: un Paese dove l’inflazione ha reso la lira locale carta straccia e tutte le transazioni si effettuano in dollari è destinato a precipitare in una recessione ancora più nera. Camminando tra le strade di Beirut oggi è evidente che per i nuovi sfollati creati dall’invasione israeliana le possibilità sono molto limitate.

L’emigrazione in Siria o verso l’occidente (per i pochi che hanno il doppio passaporto e possono permetterselo) oppure la strada. Per ora le bombe risparmiano i quartieri ricchi e la parte orientale (cristiana) della capitale, ma per quanto durerà è difficile dirlo. Inoltre, quando i musulmani cercheranno rifugio nelle aree cristiane, come reagiranno i militanti delle fazioni maronite che oggi aspettano di capire che vantaggi possono trarre dall’attuale crisi?

LA CRISI MILITARE è tutt’altro che prossima a una risoluzione. Le operazioni di terra israeliane, preludio all’invasione vera a propria del sud del Libano, per ora stentano a progredire, ma è certo che Tel Aviv ormai non può più tirarsi indietro, pena la perdita di consensi che Netenayahu ha riconquistato così faticosamente bombardando mezzo Medio Oriente. Ma l’impressione dal campo, tremenda quanto implacabile, è che il peggio debba ancora arrivare.

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