Più che uno storico ci vorrebbe una lampada di Aladino per attraversare su un tappeto volante la timeline che descrive le epoche della Mesopotamia. Su un opuscolo pubblicato a Baghdad dal ministero dell’informazione Iracheno nel 1972 la Direzione delle Antichità scrive «nei millenni tra il Tigri e l’Eufrate, ancora prima dell’era Abbasida si tramandano le eredità delle culture che si sono succedute tra Fiumi Gemelli, dinastie di Sumeri, Ur, Akkadi, Babilonesi, Amoriti, Assiri, Kassiti, Caldei, Parthi, Seleucidi, Sassani». Aggiungo io, fino ai tempi moderni della Rivoluzione di Luglio nel 1958 che segnò la fine della monarchia Hashemita dell’ultimo Re Faisal. Poi l’illusione di un governo laico ma arrivano subito le confessioni settarie degli Sciti e dei Sunniti, il partito Bath e i clan di Tikrit. Si legge ancora sull’opuscolo. «…vari periodi bui hanno percorso Baghdad, con assedi, guerre e orde nomadi straniere senza alcuna comprensione culturale. Prima le invasioni dei Mongoli di Hulagu e Tamerlano, poi i governanti rivali Jalairidi, Safawidi, e Ottomani che hanno aggiunto molte calamità e distruzione, devastando tesori artistici e culturali, fatto sparire monumenti e biblioteche».

Viene così da pensare alla simbolica caduta della statua di Saddam in piazza Firdos a Baghdad, come alla sorte della National Library nel 2003 dove sono stati bruciati decine di migliaia di antichi manoscritti, libri, e riviste iraqi, sparite per sempre, o quasi.
A suo tempo un funzionario del Pentagono, parlando a condizione di anonimato, ha affermato che «non è stato fatto alcun piano per proteggere le antichità dai saccheggiatori, invece di garantire che i siti storici non fossero coinvolti nei combattimenti stessi».

Di Iraq oggi ormai si parla poco, ogni guerra viene sostituita da un’altra, quella che verrà, e durante vent’anni ce ne sono state parecchie che sembra non possano finire mai. Oggi l’attuale presidente iracheno Abdul Latif Rashid vuole far sapere al mondo che dopo 20 anni dal rovesciamento di Saddam Hussein il paese è in pace. Ma solo andando di poco indietro alle più recenti elezioni ci si fa un’idea di una stabilità molto precaria: durante la sessione di voto di ottobre del 2021 il parlamento veniva preso di mira da 9 missili, ma la votazione è andata avanti. Facendo un altro salto indietro di dieci anni quando gli USA abbandonavano il campo, dopo una serie infinita di autobombe arrivò l’ISIS, lo stato islamico di Iraq, Siria e Levante che nel 2014 disponeva di un budget di un miliardo di dollari e 30.000 combattenti, per anni di terrore dopo l’abbandono americano al califfato.

Le conseguenze della guerra
Nel 2017 le Nazioni Unite stimano che in solo due anni sono stati uccisi nella guerra dell’ISIS 18.802 civili, 36.000 i feriti e sono 3,2 milioni i profughi che sono fuggiti, internati nei campi al confine con la Turchia e ancora oggi in fuga sui barconi che affondano nel Mediterraneo. Negli anni che seguono con l’intervento della Russia nella guerra civile in Siria la guerra ha ucciso quasi mezzo milione di persone da quando è scoppiata oltre un decennio fa, con 13 milioni di profughi, quasi la metà della popolazione siriana prebellica.

Città come Homs e Aleppo sono state completamente distrutte con bombardamenti indiscriminati su edifici civili e anche ospedali. La musica non cambia ed è solo a maggio del 2022 che durante la guerra in Ucraina la Russia ritira le sue truppe per rinforzare l’esercito sul fronte del Donbas. Insomma una guerra continua, si può dire innescata dall’invasione americana del 2003.

Solo in Iraq secondo le stime più attendibili (fino al ritiro delle truppe nel 2011) si contano più di 200.000 vittime civili documentate, oltre a 4.431 militari U.S. e 1.437 contractors, 176 morti UK e 139 di altre nazioni, 136 giornalisti, 51 media e 94 aid workers. In seguito 12.284 civili sono stati uccisi da attentati suicidi. Sono le conseguenze dell’operazione «Iraqi Freedom» che il 20 Febbraio del 2023 sferrò l’attacco «Shock and Awe» contro l’Iraq.

Flashback Palestine
All’hotel Palestine ci sono stato per più di due mesi, fino a Giugno del 2003 ho lavorato come cameraman e montatore per l’operazione news dell’EBU-European Broadcasting Union. Appena qualche giorno prima del mio arrivo all’Hotel Palestine un carro armato americano aveva sparato un colpo di cannone mirando al quindicesimo piano sul balconcino uccidendo il cameraman Ucraino Taras Protysuk e il reporter José Couso della tv Spagnola. Nei primi giorni nell’affollato hotel dormivamo in una grande tenda sull’ammezzato del Palestine dove c’era la postazione dell’EBU per gli stand-up di diretta televisiva, con vista sulla moschea. Ma con l’alternarsi delle troupe televisive e dei giornalisti ho trovato posto in una stanza al tredicesimo piano che ho trasformato in una saletta di editing. L’EBU è un organismo no-profit finanziato dai broadcasters di più di 50 nazioni e per le sue operazioni news impiega freelance di tutte le nazioni europee. Molti erano i telegiornali che prenotavano i turni di un’ora di montaggio che il più delle volte veniva trasmesso immediatamente. I clienti erano la RAI, la televisione spagnola TVE, la TV Portoghese, TF1, RTR, ARD, Deusche Welle, ORF e molti altri. Dopo aver installato il sistema di editing Betacam, comprato un tappeto e dei cuscini per arredare la stanza, ogni giorno montavo i pezzi degli inviati e sicuramente si trattava di un punto di osservazione molto privilegiato per raccogliere informazioni di prima mano.

Ero già stato a Doha in Qatar dove all’inizio delle operazioni militari c’era il comando delle forze armate della «Coalizione dei Volenterosi», lì al centro stampa in un gigantesco compound nel deserto il comando americano ogni giorno teneva la conferenza con i comunicati sull’invasione e i successi militari. Tra questi uno che non è stato riportato ufficialmente se non proprio censurato: arriva alla nostra postazione EBU un giornalista di Al Jazeera che avevo già conosciuto a Peshawar in Pakistan (due anni prima avevamo montato insieme uno speciale sulla condizione delle donne in Afghanistan), che in lacrime ci faceva vedere la lettera spedita qualche giorno prima al comando militare US per avvisare che avevano aperto un ufficio di corrispondenza a Baghdad, con tanto di indirizzo e ringraziamenti. Dopo pochi giorni il risultato è stato il bombardamento deliberato della villetta affittata da Al Jazeera, che ha ammazzato il reporter Tareq Ayoub e ferito altri membri dello staff. La frustrazione dei giornalisti di tutto il mondo era grande, in mezzo al deserto solo per assistere alle quotidiane dichiarazioni unilaterali del comandante in capo generale Franks. Così dopo due settimane a Doha l’EBU mi chiede se volevo far parte dell’operazione news EBU che andava a Baghdad. La spesa in un grande supermercato, un incontro ravvicinato di occhi per pochi secondi di una ragazza con il burka che sembravano dirmi che voleva scappare, in fila indiana con altre due mogli al seguito di un bruttissimo tipo con il camicione. Poi la partenza per Amman. All’alba il lungo viaggio di 900 chilometri nel deserto verso Baghdad.

Nelle situazioni di guerra il pericolo c’è quasi sempre quando non te ne accorgi. Viaggiavamo su una GMC ed eravamo gli ultimi in un convoglio di una decina di macchine di atre tv, io e Ivan Stojanovic, un coordinatore freelance serbo con il quale avevo lavorato a Belgrado in un altra situazione di bombardamenti USA nel 1999, che guarda caso l’EBU aveva scelto per la missione in Iraq. Il viaggio era molto lungo e ad un certo punto ci svegliamo in uno strano silenzio accorgendoci di essere rimasti isolati, l’autista viaggiava a 20 all’ora. Un rallentamento preoccupante, con molta probabilità eravamo diventati una preda di resistenti sunniti o semplicemente ladroni nelle vicinanze di Fallujah. È andata bene visto che una settimana prima da quelle parti c’era stato un agguato a un auto di reporter spagnoli con un giornalista morto. Urlando di accelerare all’autista, con molta probabilità infedele, per fortuna riprendiamo il viaggio e ci riaccodiamo alla carovana. Verso sera l’avvicinamento a Baghdad è spettrale, tra rovine e carcasse di mezzi militari finalmente arriviamo all’hotel Palestine dove saremmo stati sulla notizia. Ogni giorno le troupe televisive tornavano al Palestine con le immagini dei reportage da montare velocemente. Una situazione molto collaborativa, anche con una buona pratica di scambio dei girati, le immagini più interessanti le potevo offrire a chi arrivava dopo e montava i pezzi con me al tredicesimo piano dell’Hotel Palestine.

Il saccheggio, il museo
La storia dell’Iraq Museum inizia negli anni 20 del novecento anche grazie alla scrittrice inglese e archeologa Gertrude Bell che, interrompendo l’abitudine secolare degli archeologi di portarsi via tutto quello che trovavano, iniziò la collezione dei reperti che sarebbero diventati il Museo Archeologico di Baghdad. In ogni caso, dopo tanti anni per fortuna o no, la porta di Babylon è a Berlino al Pergamon Museum, è stata ricostruita in grandezza naturale con i materiali originali scavati nel 1910. Altre statue, bassorilievi e grandi leoni sono al Louvre e solo recentemente il British Museum ha deciso la restituzione di 5.000 antiche opere d’arte, anche quelle rubate dopo la prima guerra del golfo dal museo archeologico di Mosul che era stato completamente depredato.

Il nuovo museo archeologico, l’Iraq Museum di Baghdad dopo una serie di lunghe chiusure per guerre e mancanza di fondi è stato finalmente riaperto nel 2015, anche con il contributo degli archeologi italiani che dopo i vandalismi hanno di nuovo catalogato tutto. La storia del museo archeologico continua.
Fortunatamente molti dei pezzi più importanti erano stati preventivamente nascosti e messi in salvo ma il saccheggio dei looter è stato furibondo. Le statue dei leoni, di Apollo, Eros e Poseidone sono state decapitate, le vetrine espositive sfondate ma anche aperte con professionali taglierini dalla punta di diamante, l’archivio devastato. Solo dopo cinque giorni di ruberie le truppe di invasione USA sono state mandate a proteggere il museo. A maggio alla presenza di una commissione dell’UNESCO si annunciava l’identificazione di 1.000 pezzi mancanti, tra cui una collezione di preziosi sigilli mesopotamici cuneiformi intarsiati di lapislazzuli, agate, ematite e cristalli di rocca. Successivamente la Convention del World Heritage stimò circa 5.000 oggetti persi, 5.000 recuperati da Europa e Stati Uniti, di altri 5.000 si ignoravano le ubicazioni. Nei primi giorni dei vandalismi si è sospettato molto di furti su commissione e mandanti, in ogni caso diverse sono le testimonianze che indicano episodi di incitamento al saccheggio da parte dei militari USA e voci che dicevano di personaggi venuti dal Kuwait per depredare l’Iraq, specialisti tra i primi ad entrare nel museo insieme ai razziatori occasionali.

Di sicuro c’è che il campo è stato lasciato libero ai vandalismi e alle ruberie nei palazzi delle istituzioni. Orde di poveracci ogni giorno uscivano dal grande sobborgo di Saddam-City (città nella città con più di un milione di abitanti, costruita nel 1959 poi ribattezzata Sadr City) per saccheggiare ogni cosa, in una psicosi collettiva all’assalto vendicativo dei palazzi del potere. Dalla mia postazione privilegiata di raccolta delle notizie uno degli episodi che mi ha colpito di più è stato il racconto di un autorevole giornalista della tv austriaca ORF. Montando con me un suo reportage dei primi giorni di «Baghdad liberata» raccontava di un carro armato USA che stazionava davanti all’ambasciata tedesca e che ne ha proprio sfondato il cancello aprendo il varco ai saccheggiatori. Già da settimane ai cittadini tedeschi che si trovavano in Iraq era stato intimato di andarsene (la Germania non faceva parte della «coalizione dei volenterosi») e quando sono arrivati i looters gli impiegati dell’ambasciata erano già partiti, a proteggere c’erano solo tre guardie irachene armate di Kalashnikov che sono uscite per cercare di fermare i saccheggiatori. Racconta il giornalista austriaco che sembravano talmente invasati che non si sono fermati davanti agli spari rifiutando perfino una mazzetta di dollari in contanti offerti dalle guardie per convincerli a non entrare nella villa. Volevano solo saccheggiare, con la complicità delle truppe di occupazione. Si tratta di una testimonianza che ho raccolto direttamente grazie alle news che montavo al Palestine ma che non ho più avuto modo di verificare in seguito, nessuno ne ha mai parlato. Negli stessi giorni anche il convoglio dell’ambasciatore russo in fuga dall’Iraq veniva bersagliato di spari durante la fuga verso la Giordania.

Il souk spontaneo
Intanto dal punto di vista dell’hotel Palestine, situato nelle vicinanze della piazza dove è stata abbattuta la grande statua di Saddam, sembrava che proprio nessuno fosse in carica. Gli americani si tenevano a distanza, e davanti all’hotel pieno di giornalisti si era creato una specie di souk spontaneo dove si vendeva di tutto. Siamo perfino riusciti ad organizzare un concerto sul tetto del Palestine, abbiamo affittato l’amplificazione e alcuni strumenti nella strada dei negozi di musica, una jam session un po’ casareccia di giornalisti e tecnici che sapevano suonare, c’era pure Xenia Horwat della tv bosniaca che aveva suonato la chitarra basso in una band a Londra e un suonatore locale di houd e rababa. Fino a notte fonda, gli americani che stazionavano lì sotto, nonostante il volume bello alto si sono guardati bene dal protestare e il management dell’hotel è stato molto tollerante. Di giorno gli orologi con la faccia di Saddam andavano a ruba, gruppetti di marines alla spicciolata in libera uscita con fucile mitragliatore si accaparravano i souvenir iracheni. È possibile che altri loschi affari si tenessero nelle vicinanze ma l’atmosfera era piuttosto distesa e tranquilla. Si vendevano stoffe pregiate e liquori di qualità saccheggiati dai magazzini governativi (dicevano che Saddam era il più grande contrabbandiere di superalcolici smistati in Arabia Saudita). Chiunque poteva organizzare lì davanti il suo banchetto, c’era anche un art-cafè dove gli artisti bagdadi esponevano le loro opere. Tra i vari venditori del Souk Palestine c’era Ahmed, un simpatico mussulmano con il camicione che aveva saccheggiato al di là del Tigri il palazzo presidenziale bombardato.

Rubato, ma solo dall’archivio fotografico di Saddam Hussein, quasi da meritarsi un appellativo di fotografo ad honorem. Ogni giorno stendeva un grande lenzuolo in strada e dai due sacchi di juta tirava fuori la sua mercanzia di fotografie mezze bruciate, di immagini della prima Intifada e della guerra Iran-Iraq. Grafiche e negativi di opere d’arte e anche grandi pellicole di quadricromia che servivano per la stampa tipografica dei manifesti con il culto della personalità di Saddam. Siamo diventati amici, ogni volta compravo per pochi dollari qualcosa, anche delle foto del Centro Culturale Iracheno di Parigi (che adesso non esiste più), fotografie che evidentemente compravano dalle agenzie francesi GAMMA e Sigma, che magari ritraevano Roman Polanski e Nastassja Kinski al festival di Cannes, oppure gli attori della Nouvelle Vague e Fidel Castro. Un giorno l’ho visto tornare molto triste e parecchio malconcio per un’aggressione mentre tornava a casa. Lo hanno minacciato ma lui non se ne è voluto andare. Da poco avevano riaperto la piscina allo Sheraton lì di fronte e così l’ho portato come ospite a fare un bagno, pochi giorni dopo però sul suo posto davanti all’hotel c’era distesa una grande bandiera dell’Iraq, lì sotto ancora le sue fotografie ma di lui non si è saputo più niente.