Era trascorso da pochi giorni un mese dalla più grande manifestazione della storia dell’umanità. Quella che si tenne in tutto il pianeta il 15 febbraio 2003, aveva visto 110 milioni di persone, seguendo il fuso orario, scendere in piazza per fermare una guerra che a tutti appariva inaccettabile, criminale e destinata a rendere il mondo più ingiusto ed insicuro. Ostinatamente George W. Bush, con i “volenterosi” Blair, Aznar e Berlusconi e con il sostegno delle petrolcrazie del Golfo decisero l’invasione dell’Iraq.

Quella che noi occidentali chiamiamo la «Seconda guerra del Golfo» per gli iracheni è in verità la terza. Tra il 1980 e il 1988 il regime di Saddam Hussein, per conto dell’occidente, aveva portato avanti una sanguinosa guerra contro l’Iran degli ayatollah, svenandosi economicamente e con decine di migliaia di vittime.

NEANCHE tra la guerra del 1991 e quella del 2003 si può parlare di pace, perché l’Iraq venne smembrato del proprio Kurdistan e sottoposto a continui raid militari e a un embargo criminale che ha finito per uccidere 500mila persone per mancanza di medicinali, potabilizzatori, cibo e altri mezzi di prima necessità.

L’amministrazione Bush non solo se ne fregò della «seconda superpotenza mondiale» come era stato definito dal New York Times il grande e globale movimento contro la guerra, ma costruì pervicacemente una macchina propagandistica fatta di prove false – clamorose le provette all’antrace mostrate da Colin Powell in una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – che dimostravano che Saddam era in possesso di armi di distruzione di massa.

Un falso di cui il premier britannico Blair chiese scusa anni dopo, ma intanto la guerra aveva seppellito sotto le macerie, oltre che il diritto internazionale, un numero imprecisato e sterminato di esseri umani e prodotto altrettanti mutilati, vedove e orfani.

La guerra provocò in tutto il Medio Oriente e nel mondo islamico l’espansione dei giacimenti di odio. In quei giorni si parlava da parte dell’occidente espressamente di «guerra di civiltà» condita dalla supposta esportazione armata della democrazia.

IL MOSTRO creato dalla «guerra infinita» valicò i confini, arrivò nelle stazioni di Madrid, nel centro di Londra e di altre città europee. Incendiò la Siria sottraendo la parola alle rivoluzioni arabe. Si materializzò con Daesh, il Califfato nero che fece di Mosul e Raqqa le sue due capitali. Il buio prodotto dalla guerra ha contribuito a rompere anche quell’internazionale della speranza che era sorta, incubata e cresciuta nei Forum Sociali mondiali e continentali e che si era straordinariamente palesata nei cinque continenti il 15 febbraio 2003 con quell’oceano pacifico che aveva invaso le principali città del pianeta.

Un’alleanza che teneva insieme la società civile araba, le principali confessioni religiose, i movimenti sociali e per la pace dell’occidente, università, centri studi, artisti, intellettuali e anche i familiari delle vittime dell’11 settembre e i veterani della prima guerra del Golfo. In Italia tutte le città erano piene di bandiere della pace alle finestre delle case e nei balconi di scuole e istituzioni: fu qui da noi che si tenne la manifestazione più grande.

L’interventismo democratico, che a ogni guerra ammorbava e ammorba il dibattito pubblico con il tentativo d’ingentilirla con aggettivi come «guerra umanitaria, per i diritti umani, la libertà, le donne e la democrazia» di fronte a quella mobilitazione di popolo vacillò, aggrappandosi a una legittimazione dell’Onu dell’invasione dell’Iraq (che però non avvenne).

Fu grazie a quel movimento che Francia e Germania si dissociarono dal conflitto negando uomini e mezzi. Fu sempre per quelle mobilitazioni che in due elezioni successive la Spagna di Zapatero prima e l’Italia di Prodi dopo, ritirarono le proprie truppe di occupazione dall’Iraq.

È stato grazie a quella solidarietà con il popolo iracheno, nonostante l’orrore portato in Iraq con la guerra dai nostri governi, che ha consentito alla società civile irachena, tra il 2019 e il 2022, di dare vita a manifestazioni e scioperi – loro la chiamano «la rivoluzione» – tenendo la piazza per mesi e chiedendo la fine dalla divisione settaria e del clientelismo prodotta dall’occupazione occidentale, dal fanatismo di Daesh e dalla penetrazione iraniana, nonché dalle incursioni armate della Turchia.

SE LA GUERRA del 1991 e quella successiva in Jugoslavia erano servite per cancellare le speranze di pace prodotte dalla caduta del muro di Berlino e sdoganare la guerra nella politica e nelle relazioni internazionali, quella del 2003 concretizzava il rilancio della Nato come «gendarmeria globale». Nel summit per il cinquantenario del Patto Atlantico a Washington il 23 e 24 aprile 1999, la Nato aveva infatti formalmente legittimato questa sua nuova mission, dichiarandosi competente a compiere operazioni militari al di fuori dell’articolo 5 del Patto Atlantico.

L’estensione a Est della Nato, oltre a condizionare la fisionomia politica della Ue, ha destabilizzato l’intero continente. La guerra in Ucraina è figlia di quelle scelte. Siamo davanti ad una nuova guerra fredda, che come ha scritto Domenico Gallo, è «molto più pericolosa della prima perché ha attizzato derive nazionalistiche molto più irrazionali del confronto ideologico che animava, ma frenava anche, la prima guerra fredda».

Nel 2003 il posizionamento politico e le parole d’ordine del movimento per la pace erano omogenei ovunque. Ricostruire una lettura del mondo comune che superi le barriere nazionali è oggi un obiettivo difficile ma ineludibile. Sta ai nuovi movimenti, internazionali per vocazione, come quelli del Fridays For Future e delle donne, costruire questa nuova rete mondiale in grado di contrastare la cultura della guerra e dare speranza all’umanità.

*Co-presidente nazionale di Un Ponte Per