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Babel’, macabro e pietas a Pietrogrado dopo la Rivoluzione

Babel’, macabro e pietas a Pietrogrado dopo la RivoluzioneUno degli sketches con cui il pittore e artista russo-sovietico Ivan Alekseevich Vladimirov, al seguito della milizia di Pietrogrado negli anni 1917-’18, documentò gli eventi e gli effetti della Rivoluzione

Classici russi All’ospizio per soldati ciechi... alla Casa della Maternità... al mattatoio dove i tatari macellano solo cavalli: 17 articoli di Isaak Babel' per la «Vita nuova» di Gor’kij e altre corrispondenze, Skira

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 14 gennaio 2018

«E’ ormai assolutamente chiaro che lei, caro signore, non sa proprio niente, ma riesce a indovinare molte cose. Sarà bene, quindi, che se ne vada un po’ tra la gente».

Queste le parole con le quali l’autorevole e celebrato Maksim Gor’kij congedò il giovane Isaak Babel’ dopo due ore di colloquio, «due ore indimenticabili – scrisse poi Babel’ – che decisero il mio destino di scrittore».

Era il 1917, Babel’ si arruola volontario nell’esercito russo e viene assegnato a una divisione di artiglieria che opera sul fronte rumeno. L’anno successivo, colpito dalla malaria, fa ritorno a Odessa, la sua città. Una volta guarito, parte per Kiev e, attraverso un viaggio avventuroso, raggiunge Pietrogrado, dove incontra nuovamente Gor’kij, il quale lo manda, appunto, «tra la gente» e gli offre una collaborazione al suo giornale, Vita nuova, che è su posizioni mensceviche.

Babel’ produce diciassette articoli giornalistici sulla vita quotidiana a Pietrogrado e gli effetti della rivoluzione, raccolti ora in un volumetto sotto il titolo Cronache dell’anno 1918 (Skira «Nota d’autore», pp. 91, € 13,00), unitamente a tre altre corrispondenze uscite su rivista (gli stessi articoli sono stati pubblicati trentotto anni fa da Garzanti nella raccolta Il sangue e l’inchiostro, un volume ormai introvabile).

Cronache è la definizione esatta. Che cosa fa Babel’?

Prende a girare per la città, entra negli uffici pubblici, nelle carceri, nei pronto soccorso, nelle assemblee dei disoccupati, va al Commissariato per l’assistenza sociale o all’Ospizio per soldati ciechi e racconta, esclusivamente, senza commenti né retorica, ciò che vede: «Sulla targhetta è scritto: ‘Ospizio per soldati ciechi’. Ho suonato all’alta porta di quercia. Nessuno ha risposto. La porta era aperta. Sono entrato ed ecco quello che ho visto».

Il suo stile è asciutto, essenziale, fotografico, come si conviene alla rivista del suo «maestro». Sarà poi con L’Armata a cavallo e i Racconti di Odessa che Babel’ lo arricchirà di metafore, caricandolo di lirismo (per la prima volta, tre anni dopo, con «Il re», che aprirà il ciclo dei racconti odessiti).

Anche in queste cronache, tuttavia, c’è molto di quello che caratterizzerà il Babel’ più maturo, come l’orientamento al documentarismo, il ricorso alla lingua parlata, l’amore per il macabro, la pietas.

Nel ’18 Babel’ è ancora una «creatura» di Gor’kij, un attento e curioso osservatore della società e delle sue dinamiche, uno spirito anticlericale e antibolscevico allo stesso tempo.

«Oggi non esiste più ciò che un tempo si chiamava mattatoio di Pietrogrado. Nel cortile del macello non viene più portato un solo bue, un solo vitello», scrive Babel’ in una delle prime cronache. Ci trova solo cavalli e i loro macellatori, i tatari, perché «i nostri macellatori rimasti senza lavoro non hanno ancora potuto decidersi di abbattere i cavalli. Non ci riescono, gliene manca il cuore».

Prima della rivoluzione si macellavano trenta-quaranta cavalli al giorno, ora ne arrivano quotidianamente cinque o seicento. I tatari pagano bene un cavallo, ma il boom della macellazione equina è dovuto alla mancanza di foraggio. Successivamente, a un pronto soccorso, Babel’ scopre che non ci sono ambulanze. Qui manca la benzina.

C’è un libro, uno solo: il registro dei rifiuti, ovvero l’elenco di tutti coloro che non si sono potuti soccorrere. Nella clinica dei bambini nati prematuramente, le nutrici sono poche (cinque per trenta lattanti) e hanno sempre meno latte, «un ulteriore, quasi impercettibile segno della nostra agonia».

La Casa della Maternità, invece, funziona ed è un’idea straordinaria, sottolinea Babel’. «Le donne – spiega – entreranno nel Palazzo all’ottavo mese di gravidanza. Trascorreranno l’ultimo mese e mezzo prima del parto in condizioni di tranquillità, sazietà, moderato lavoro. Non dovranno pagare niente. Mettere al mondo dei bambini è un tributo allo Stato».

Si tratta di un’idea che «va realizzata fino in fondo» perché «prima o poi la rivoluzione va fatta».

Ed è questa la rivoluzione che Babel’ concepisce. Scrive: «Imbracciare il fucile e mettersi a sparare gli uni contro gli altri a volte può non essere uno sbaglio. Ma non è ancora una rivoluzione. Chissà forse non è affatto la rivoluzione».

Babel’ fu fucilato il 27 gennaio 1940 dopo un processo i cui capi di accusa erano tre: spionaggio, terrorismo e trockismo. Le sue ceneri furono tumulate in una fossa comune insieme a quelle del grande regista teatrale Vsevolod Mejerchol’d. Dove siano non si sa ancora oggi.

Durante il processo, tipico dell’epoca staliniana, ma in questo caso preceduto da una lunga istruttoria, Babel’ – che invano chiese fossero sentiti alcuni suoi amici, tra i quali Ehrenburg e Voronskij – proclamò: «Non sono colpevole. Non sono stato una spia. Non ho mai commesso reati contro l’Unione sovietica. Nelle mie deposizioni mi sono dichiarato colpevole. Ho accusato me stesso e altre persone perché costretto». Sembra di leggere un suo racconto.

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