Avraham Burg, ex presidente della Knesset e da anni tra i volti più noti del pacifismo israeliano, opta per il pessimismo: «Chiedi se un accordo è davvero possibile? Prossima domanda, per favore».

Ci si arriverà o no?

Israele è in un loop senza fine. Perché non ci sarà una vittoria militare. Ce ne può essere una mediatica: l’unica cosa che può essere percepita come un risultato o per lo meno una piccola compensazione per l’agonia pubblica è il ritorno degli ostaggi. È sta qui il punto vero: se Netanyahu e il suo governo optano per un accordo pieno sui prigionieri, significa la fine dell’invasione israeliana e dunque la fine della coalizione di ultradestra. Se invece continuano la guerra, senza tenere conto degli ostaggi, perdono Gantz e Eisenkot. È il comma 22. Non importa cosa faccia, è all’angolo, una classica situazione da Netanyahu. E poi c’è Hamas, cosa intende Hamas per vittoria: esistere ancora e rimanere un attore politico a Gaza. Insomma, le due parti non hanno interessi comuni.

Quanto pesa la pressione dell’opinione pubblica su Netanyahu? Un pezzo di società vuole la guerra, un altro più minoritario ne chiede la fine.

La pressione su Netanyahu dovrebbe essere espressa sotto forma di rabbia pubblica, con la gente in strada che gli dice che deve pagare il prezzo dell’uccisione di migliaia di persone, della più orribile sorpresa che Israele ha mai dovuto affrontare. Ma visto che in piazza la gente non va, che non c’è una reale rabbia espressa negli spazi pubblici, non esiste una vera pressione. La verità, ed è devastante, è che Netanyahu rinuncerebbe agli ostaggi domani mattina pur di continuare la guerra. Sia perché è un leader anti-arabo, sia perché nessuno tocca un leader in tempo di guerra.

Se ci fossero elezioni domani, quale sarebbe il suo destino?

La fine di Netanyahu è stata dieci anni fa ma nessuno glielo ha detto. Se ci fossero elezioni, il risultato dipenderebbe dalla rabbia del pubblico, dall’economia, dal prezzo pagato sul campo di battaglia, dalla pressione internazionale e anche dalle posizioni degli elementi più radicali del suo governo. Quanto lo indeboliscono? Avere partner come Smotrich e Ben Gvir lo indeboliscono. E alla gente non piacciono i leader deboli, soprattutto in tempo di guerra.

L’ultima volta che abbiamo parlato era la fine di ottobre, poche settimane dopo l’attacco di Hamas. Cosa è cambiato, o non è cambiato, nella società israeliana da allora?

La maggioranza degli israeliani si sente ancora con il respiro corto. È difficile essere felici, tornare alla normalità. Niente funziona davvero come prima. Nei luoghi di lavoro ci sono moltissime persone assenti, i negozi non lavorano come prima, molte fabbriche sono chiuse. Buona parte degli israeliani si sente soffocare. D’altra parte, è tornato il traffico, la gente esce, va nei caffè e nei bar, alcune cose sembrano normali. Ma si percepisce la pesantezza quotidiana. L’unico segmento della società che festeggia sono i sionisti ultra-religiosi, quelli che aspettano di tornare a Gaza, di ricostruire le colonie. La «redenzione» è tornata in attività. È una minoranza ma molto rumorosa e politicamente influente: l’abbiamo vista danzare la scorsa settimana alla conferenza di Gerusalemme sulla colonizzazione di Gaza. Questo 5% è quello che balla sul sangue, che celebra la guerra.