Intanto, mentre chi decide la guerra fa la guerra, mentre si rifiutano mediazioni diplomatiche, si uccidono giornalisti e ci si accanisce sui prigionieri, intanto, mentre ci si concentra sugli esseri umani che hanno un nome e un cognome c’è un genocidio che continua, ora dopo ora, da dieci mesi, c’è la strage degli innocenti.

Intanto le immagini che arrivano da Gaza, e menomale che arrivano e maledizione che arrivano, diventano incommentabili. Se non riusciamo più a dire – a giudicare senza affossarci, scomparire, esserne sopraffatti – le epidemie e le morti per fame; se non si può – e non si può – commentare il corpo decapitato di un bambino, finisce lo spazio dell’umanità.

Quello spazio che la semiotica da quando è nata attribuisce al linguaggio, alle lingue, alle letterature, alla possibilità cioè di creare un pensiero strutturato in un contesto che abbia delle regole condivise e riconoscibili: la sintassi. Quando il pensiero si struttura, lì c’è l’essere umano, perché quell’organizzazione delle parole è lo specchio dell’organizzazione della civiltà così come la conosciamo, pur nelle sue minime regole.

L’indicibile, ci insegnò Levi, è il punto di non ritorno, è la fossa comune dell’umanità.

Quando dico fossa comune dico che dentro ci si finisce tutti, anche chi pensa di salvarsi, ci finisce pure l’esercito israeliano, intendo, anche il criminale Netanyahu, e chi lo sostiene e i governi che lo sovvenzionano, perché il processo di annichilimento del dicibile è universale, investe tutto il genere umano perché ne mina il principio costitutivo.

Resta solo, per cercare parole, di tornare dalle madri e dai padri, da coloro che sono venuti prima e hanno già incontrato le fosse comuni del linguaggio.

Euripide nel 415 a. C. mette in scena Le Troiane davanti al pubblico di Atene. La storia la conoscevano tutti: è appena stata presa Troia, la rocca brucia alle spalle dei vincitori e le donne piangono i loro figli, i loro mariti e i loro fratelli, uccisi dagli achei con un inganno. La tragedia non ha un nome, non è Antigone, né Medea né Edipo.

È un collettivo indistinto di dolore che vuole raccontare per sempre la sofferenza degli innocenti, di coloro che non scelgono, delle vittime cancellate dalla storia. Le donne restano testimoni vive della città morta, e il loro destino non è migliore: andranno schiave, saranno stuprate.

Dice Sanguineti, traducendo Le Troiane per una messa in scena del 1974, che il metro scelto da Euripide è così spezzato che è quasi impronunciabile, gli attori possono solo ridurlo a un lamento, infine al silenzio.

È esattamente quello che sta accadendo qui tra di noi. Come commenti il corpo di un bambino tra le braccia di sua madre senza più la testa? Alle madri troiane accade lo stesso strazio: Astianatte, che ha pochi anni, verrà gettato dai soldati achei giù dalla rocca di Ilio. La nonna, Ecuba, si prende l’incarico di seppellirne le spoglie e di tenere tra le braccia il corpo straziato di quel bambino palestinese.

E si prende pure l’incarico di andare dai soldati e dai re che hanno ordinato l’infanticidio e dire, a loro e a noi, ai soldati achei e a quelli israeliani, e ai loro mandanti, come stanno le cose. Euripide fa parlare Ecuba nel mezzo della guerra del Peloponneso, dopo che gli ateniesi avevano fatto strage dell’isola di Melo per poi insediarvi dei coloni. Non si esclude, dicono i commentatori, che nel pubblico che assisteva a Le Troiane, fossero presenti gli stessi soldati che avevano commesso quei crimini.

Così, a loro, parla Ecuba: «Voi, che avete più splendore nelle armi che nelle menti, voi: avete avuto paura di un bambino».