Politica

Avanti tutta, ma sulla separazione delle carriere la premier prende tempo

Giorgia Meloni e Ignazio La Russa all'Altare della patria per il 25 aprile, foto AnsaGiorgia Meloni e Ignazio La Russa all'Altare della patria per il 25 aprile – Ansa

Giustizia La nota contro le toghe non era firmata per evitare di tagliare tutti i ponti alle spalle

Pubblicato più di un anno faEdizione del 9 luglio 2023

Cosa c’entra la separazione delle carriere con il «provvedimento fisiologico» di un gip che, contro il parere della procura, dispone un’imputazione coatta? Lo chiede il presidente dell’Anm Santalucia, specificando che «non si può andare a una riforma costituzionale come risposta reattiva» a quel provvedimento.

La riforma in questione sarebbe appunto la separazione delle carriere e Santalucia sa perfettamente che figurava in bella vista nel programma della destra molto prima che nascesse il caso Delmastro. Tuttavia non sono parole usate a sproposito. Al contrario chiariscono la situazione.

Per mesi la premier ha frenato il suo guardasigilli, si è scelta un sottosegretario alla presidenza del Consiglio come Mantovano, uomo del dialogo con il potere togato come pochi altri, ha ripetuto alla sua truppa di evitare scontri con la magistratura. In questo contesto la separazione delle carriere, cioè l’unica riforma della giustizia che implicherebbe lo scontro totale con le toghe, era destinata in tutta evidenza a restare al palo.

Non è certo un caso che la rincorsa sia stata presa sul premierato e sull’autonomia differenziata dimenticando il terzo cavallo di battaglia della destra, quello a cui teneva soprattutto Berlusconi. In cambio la premier si aspettava che la magistratura non portasse lo scontro alle estreme conseguenze e poco importa se l’accordo fosse quasi esplicito, come qualcuno sostiene, o applicato di fatto.

Dopo i casi Santanchè e Delmastro la premier si è convinta davvero di essere di fronte a un attacco diretto e dunque a una rottura di quel patto non scritto e forse neppure mai esplicitato. Probabilmente non è così. I casi in questione sono punture di spillo. La procura di Roma aveva al contrario cercato di fare in pieno la propria parte chiedendo l’archiviazione per Delmastro e Santalucia fa capire tra le righe che di fronte a «provvedimenti fisiologici», insomma di fronte alla scelta di un singolo gip, non c’era niente da fare.

In una palazzo Chigi trasformata di colpo in bunker, con la tensione portata oltre le stelle dall’incredibile e decisamente improvvido comunicato del presidente del Senato sulle accuse contro suo figlio, lo stato maggiore del governo deve ora mettere a punto una strategia e prendere decisioni destinate a incidere a fondo sul futuro dell’esecutivo. Di certo la riforma della giustizia verrà accelerata: «A questo punto è diventata una priorità», commentano dagli spalti. Segnalano però come significativa anche la scelta della premier di parlare in forma anonima, con quel comunicato attribuibile solo a generiche “fonti”. Firmare apertamente la dichiarazione di guerra avrebbe significato brucarsi ogni ponte alle spalle. Meloni è tentata ma non ha ancora deciso: nella riforma della giustizia la separazione delle carriere non dovrebbe essere il punto focale» e comunque i tempi sono ancora tutti in forse.

Di certo non mancherà chi consiglierà a Meloni prudenza. Nei giorni scorsi il Quirinale ha osservato con crescente preoccupazione il riaccendersi di uno scontro tra poteri dello Stato potenzialmente devastante e l’allarme è diventato rosso quando nel tritacarne si è buttata sconsideratamente anche la seconda carica dello Stato. È probabile che nella relativa non belligeranza dei mesi scorsi tra governo e magistratura la moral suasion del capo dello Stato abbia avuto il suo peso ed è anche più probabile che quell’autorevole suggerimento si farà sentire di nuovo appena la tempesta di questi giorni si acquieterà un po’.

Un nuovo scontro tra governo e togati è inevitabile ma se sarà una rumorosa scaramuccia o una vera guerra è ancora del tutto in forse.

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