Autonomia, Flick: «Firme boom, ma non montiamoci la testa»
Riforme L’ex Guardasigilli a capo del Comitato per il referendum: «A rischio la sopravvivenza della nostra Costituzione nella sua interezza»
Riforme L’ex Guardasigilli a capo del Comitato per il referendum: «A rischio la sopravvivenza della nostra Costituzione nella sua interezza»
Giovanni Maria Flick, già ministro della Giustizia nel primo governo Prodi e presidente della Corte Costituzionale fino al 2009, da due settimane presiede il comitato per i referendum contro l’autonomia differenziata.
Qual è la posta in gioco?
È un incarico impegnativo, non solo perché si tratta di aiutare un coordinamento per la raccolta organica delle firme, ma per la posta in gioco che è quella di salvaguardare la Costituzione di fronte a una prospettiva di riforma che minaccia di sconvolgere completamente il tessuto costituzionale. Ho accettato l’incarico perché credo profondamente nella Costituzione, nella sua validità, ci ha dato 75 anni di libertà e di progresso. È profondamente attuale, anche se deve essere ritoccata; in alcuni punti è stata attuata male, come quando nel 2000 si è cercato di introdurre una riforma concettualmente sbagliata che adesso viene utilizzata per portare avanti l’autonomia differenziata.
Si riferisce alla riforma del Titolo V
Sì, all’introduzione di un federalismo competitivo e non solidale come lo vede la Costituzione nell’articolo cinque in cui si parla dell’unità e indivisibilità della Repubblica e del favore per il decentramento.
La destra esprime dubbi sul fatto che i quesiti possano essere accolti dalla Consulta.
Non faccio profezie; mi limito a esprimere l’esperienza di uno che ha lavorato come giudice della Corte Costituzionale. La richiesta del referendum è prevista esplicitamente dalla Carta per consentire di manifestare la propria contrarietà alla legge che è stata appena approvata, invece di manifestarla con agitazioni di piazza. È una forma di dissenso importante e riconosciuta al popolo e alla sua sovranità.
I numeri delle firme sono confortanti.
Non dobbiamo montarci la testa e pensare che ormai sia fatta: questo è soltanto il primo piccolo anche se fondamentale gradino per mettere in moto un meccanismo di espressione della volontà popolare. E deve incontrare una serie di altre soglie, di controlli, il primo dei quali è la valutazione della ammissibilità da parte della Consulta. Poi ci sarà poi la prova del nove: bisognerà andare ai seggi.
Quali sono i motivi di questa partecipazione?
Il primo, a me sembra, è quello che si mette in pericolo la sopravvivenza della Costituzione nella sua interezza. Il secondo è che tutti, anche chi si oppone al referendum, continuano a riconoscere che la riforma del Titolo V voluta dal centro sinistra per contrastare le prospettive federaliste della lega e fatta in gran velocità, è stata un disastro. Questa legge ne ripropone gli stessi difetti. Di fronte all’errore commesso allora non era il caso di insistere. Errare humanum est ma perseverare è ancor più preoccupante.
Intanto non si vedeva da tempo un fronte così compatto come per il referendum.
Questo mi pare importante e positivo, perché testimonia un desiderio di cambiare registro, di far rivivere la partecipazione, di non andare avanti con leggi prive di organicità, incomprensibili, di difficile attuazione, delle quali non sono chiari costi e conseguenze. Ci sono forti perplessità sulla valutazione dei costi, anche da parte della Banca d’Italia e dell’ufficio di bilancio del Senato oltreché da parte di chi si è dimesso dalla commissione per l’indicazione dei Lep (Livelli essenziali di prestazione) pur avendo un notevole esperienza in materia. La mobilitazione dei partiti e dei sindacati mi sembra opportuna: è un modo di collegare questo discorso a tutte le altre istanze che devono essere attuate in Parlamento e nel Paese e quindi può avere un effetto propulsivo per la partecipazione E può aiutare soprattutto perché oggi tutto quello che è l’intervento di mediazione dei corpi intermedi ha finito per essere quasi eliminato.
Lei ha messo la sua biblioteca a disposizione del carcere di Rebibbia.
Ho fatto questa scelta alla luce dell’esperienza di ministro della Giustizia e soprattutto nei nove anni in cui sono stato alla Corte Costituzionale. Sono convinto che la drammaticità del carcere renda assoluta necessaria un’apertura tra carcere e realtà esterna; faccia capire a chi è fuori che cosa c’è nel carcere e a chi è dentro quali sono le attese che la società ha per riammetterlo in essa. Ci sono rivolte in continuazione, suicidi e si continua ad andare avanti con piccoli interventi nella logica dell’emergenza mentre il governo introduce reati nuovi per rispondere in apparenza a domande di sicurezza. Non ci siamo proprio. Il decreto Nordio e la legge di riforma del sistema giudiziario in approvazione non affrontano e non risolvono in alcun modo il problema del sovraffollamento, mentre all’abolizione dell’abuso di ufficio si sostituisce la reintroduzione di un reato cancellato nel 1971 perché presentava gli stessi problemi (il peculato per distrazione).
All’orizzonte c’è anche il premierato.
Premierato e autonomia differenziata sono due questioni molto diverse ma si tengono per mano perché c’è una contraddizione in termini nel fatto di modificare la Costituzione per rafforzare al vertice il centralismo del Presidente del Consiglio (che viene eletto non più dal Parlamento ma viene eletto direttamente dal popolo) e la posizione del Capo dello Stato che invece è eletto Parlamento; mentre alla base si attenta alla coesione attraverso la differenziazione delle regioni in modo generalizzato. Questo abbinamento delle due riforme da un lato può essere interpretato come un do ut des interno alla maggioranza, per rafforzala superando le divisioni che ci sono in essa; dall’altro come una contraddizione logica che si introduce tra il vertice e la base dello Stato.
L’abuso delle decretazione di urgenza la preoccupa?
L’indebolimento del Parlamento non è una novità. È cominciato, ad esempio, con la riduzione del numero dei parlamentari con la motivazione che costano troppo; un discorso che non si dovrebbe mai avviare in una democrazia rappresentativa. E questo indebolimento trova una conferma ulteriore nella procedura dell’autonomia differenziata che prevede per il Parlamento un ruolo pressoché notarile: prendere o lasciare senza possibilità di intervenire nel contenuto dell’intesa e della sua trattativa chiusa tra lo Stato e ogni singola regione. È preoccupante che la Repubblica venga smembrata attraverso una serie di negoziazioni di tipo essenzialmente politico.
La maggioranza è in difficoltà nell’esprimere parole chiare contro il fascismo e il neofascismo stragista.
Un Paese diventa e rimane civile quando ha non una memoria condivisa, ma una memoria comune. La condivisione sarebbe bella se ci fosse, ma è molto difficile che vi si arrivi. Soprattutto in un paese come il nostro che è uscito da una sconfitta disastrosa con la Resistenza e la Liberazione che hanno rappresentato una doppia valenza: la lotta contro il tedesco occupante e le sue atrocità e quella contro il fascismo e contro il rischio di una frammentazione drammatica come quanto si è cercato di fare quella che si è cercato di fare con la Repubblica Sociale Italiana. Le conseguenze che ci sono state sono state superate solo grazie alla Costituzione e all’unità che essa ha portato.
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