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Aurora Venturini, cupe accentuazioni di una voce antimoderna

Aurora Venturini, cupe accentuazioni di una voce antimodernaLeonor Fini, «Il ritorno degli assenti», 1965

Scrittrici argentine Le dolenti reminiscenze di una donna, prodigio e «impiastro» di una famiglia naufragata tra spirali autodistruttive, scivolano verso un soliloquio luciferino: «Noi, i Caserta» di Aurora Venturini, da Sur

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 19 novembre 2023

In una delle sue ultime apparizioni, tra il 2012 e il 2013, durante le riprese del documentario di Agustina Massa e Fernando Krapp dedicato alla sua figura e alla sua opera, la scrittrice argentina Aurora Venturini, ormai novantenne, minuta e incassata nella sedia dalla quale parla, ricorda le volte in cui, da ragazza, dopo la scuola, andava nel bosco per fumare di nascosto con le amiche. Accanto a lei c’è un parroco, con il quale conversa mentre la troupe li filma; è uno scambio tra amici di vecchia data, che procede per accenni e impliciti. Venturini lo ringrazia per essere riuscito a toglierle il vizio del fumo e anche «alcune idee strane che mi ero messa in testa».

Secondo la voce fuori campo, che si alterna al dialogo tra i due, il prete, un certo Carlos Alberto Mancuso di La Plata, è conosciuto per la sua attività di esorcista; tuttavia Venturini non specifica a quali idee si stia riferendo, e sembra dimenticarsene dopo aver ceduto la parola all’amico. Si potrebbe credere che la sua evasività abbia a che fare con lo spaesamento dovuto ai ritmi del set cinematografico, ma non è così. Venturini – scomparsa nel 2015 – era tutto fuorché spaesata quando parlava di sé: la sua abilità nella costruzione del proprio personaggio le valse il Premio Nueva Novela della testata argentina Página /12, vinto dall’autrice nel 2007, a ottantacinque anni, con il romanzo Le cugine, pubblicato in Italia l’anno scorso da Sur nella traduzione di Francesca Lazzarato (e con la prefazione di Mariana Enríquez).

Le storie di Venturini insistono nel rivendicare la dannazione come la più tenace forma di salvezza: «La mia stagione all’Inferno era iniziata quattro anni prima di questa foto: il giorno della mia nascita», afferma Chela, la voce protagonista di Noi, i Caserta, edito ancora da Sur nella traduzione di Francesca Lazzarato (pp. 220, € 17,50), che firma anche la prefazione continuando così a accompagnare il lettore italiano nell’universo narrativo della scrittrice di La Plata.

Chela inizia a raccontare la sua storia rinvenendo da un baule nella soffitta della tenuta in cui vive un’antica fotografia che la ritrae bambina in un vestitino di organza. Il ricordo non è lieto, al contrario: «Madre, perché non mi hai voluto un po’ di bene?». La domanda risuona lungo tutta la narrazione, durante la quale veniamo a conoscenza dei componenti della famiglia Stradolini, un microsistema mostrato nel suo funzionamento distruttore, del quale fanno parte anche le nonne, che la protagonista non esita a definire «vecchiacce di merda» quando le scopre a fare odiosi paragoni tra lei e la sorella Lula, graziosa e tenera, cresciuta nella campana di vetro della predilezione materna.

Ormai anziana, dai meandri della febbre malarica, la donna espone la sua verità includendo nel racconto della sua vita la relazione di una maestra e psicologa incaricata dal padre di seguirla, «ansioso di svelare perché mai aveva generato un mostro». La relazione conferma «la sua anormale superiorità»: la dinamica famigliare escludente cui è sottoposta la bambina, prodigio e «impiastro», si dispiega via via per interposta persona, ed è l’unico momento del romanzo in cui la narratrice cede la parola a qualcun altro. Quella della maestra è una voce che nella sua inorridita impotenza («sono una donna di scienza e non un’esorcista») ha come modello l’istitutrice di Il giro di vite, la nouvelle di Henry James.

Il «caso» della bambina – il cui ritratto risulta intensificato piuttosto che stemperato dal filtro della disamina esterna – si rivela al lettore assumendo i tratti della rivincita e della riparazione per tutte le storie nelle quali le ragioni dei dannati – categoria cui senz’altro appartiene la protagonista di Noi, i Caserta – rimangono sottaciute. Chela, aggiornamento «maledetto» alla figura della Madwoman in the Attic – dal titolo di un noto saggio di critica militante degli anni settanta –, ha trascorso l’infanzia in soffitta, dove progettava i suoi giri selvaggi nelle terre della pianura bonaerense appartenute al bisnonno di origini italiane, e ha una incontenibile propensione per lo studio. Se ne serve per sottrarsi al contatto con i suoi familiari e per affinare il suo sguardo impietoso verso gli esseri umani e la realtà che la circondano. Si trasforma così, lungo gli anni del suo apprendistato, in una creatura libresca, come libresca è la mitologia personale di Aurora Venturini, abbastanza ampia da includere il racconto di una discendenza diretta da un’antica famiglia siciliana, i Caserta del romanzo, emigrati in Argentina dopo l’unificazione. Proprio in Sicilia, Chela – una Caserta per parte di madre – viene iniziata all’occultismo (passione dichiarata di Venturini): sa recitare con voce da posseduta Rimbaud, i cui versi, ripresi più o meno alla lettera, confluiscono nel suo soliloquio luciferino; i suoi numi tutelari – tra i quali, oltre a Rimbaud e Lautréamont, compaiono anche Baudelaire e Gide – tracciano i confini del perimetro dal quale ha scelto di osservare (e vivere) la sua epoca: la protagonista di Noi, i Caserta è un’antimoderna. Intrisa di quel senso della decadenza governato da una tensione esistenziale mai sopita, la sua quête coincide con la rivolta e la caduta. È da una stravagante e contraddittoria posizione, infatti, che mette in atto la sua dissidenza: figlia del secolo invischiata nel movimento della Storia, asociale, reazionaria e contemporanea allo stesso tempo, indisciplinata, la sua corsa solitaria prende la forma di una insubordinazione, e procede a passo sicuro verso la rinuncia ai ruoli e alle convenzioni sociali.

L’intreccio osmotico tra gli elementi autobiografici e la vita delle sciagurate creature protagoniste dei suoi libri trasforma le pagine di Aurora Venturini in evocative moltiplicazioni di un diabolico autoritratto. In Le cugine il lettore ha conosciuto Yuna, il cui monologo spiazzava per la sua ferocia. A lei si aggiunge adesso l’indocile Chela, che iscrive la sua voce nell’antica genealogia dei cuori di tenebra della letteratura universale.

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