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Aspettando un’altra guerra

Aspettando un’altra guerraBenjamin Netanyahu

Una tregua indispensabile ma fragile, con il rischio che prima o poi tutto ricominci come un eterno ritorno alla guerra secondo un copione già conosciuto. È iniziato soltanto l’ennesimo contro […]

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 22 maggio 2021

Una tregua indispensabile ma fragile, con il rischio che prima o poi tutto ricominci come un eterno ritorno alla guerra secondo un copione già conosciuto. È iniziato soltanto l’ennesimo contro alla rovescia verso un altro conflitto? Eppure anche questo cessate il fuoco pone il problema della pace, come farla e soprattutto con chi farla.

La destra israeliana non ha nessuna intenzione di riconoscere i diritti dei palestinesi, Hamas finora è rimasto un tabù negoziale mentre la leadership di Abu Mazen e dell’Anp è più screditata che mai. Nel mezzo c’è una popolazione civile che soffre, manovrata come una pedina. Apparentemente non si scorgono vie di uscita.

Ci sono però alcune novità interessanti, dentro e fuori la Palestina.

L’ultima esplosione di violenza ha fatto saltare il modello di convivenza tra arabi e israeliani nelle città miste dello Stato ebraico che, nonostante la tregua, oggi vivono in un clima di rabbia e di paura. La maschera di Israele come stato democratico si sta rapidamente sfaldando.

Il risentimento accumulato nella comunità araba di Israele, il 20 per cento della popolazione, è un ordigno a orologeria. Ufficialmente gli arabi israeliani hanno gli stessi diritti di lavorare, studiare e vivere come i loro concittadini ebrei. La realtà è che sono apertamente discriminati. Nel 2018 la Knesset ha approvato una legge che proclama Israele “Stato nazionale del popolo ebraic«». Non una sola parola fa riferimento agli arabi israeliani. Si tratta, come scriveva qualche giorno fa su il manifesto Moni Ovadia, di una legge segregazionista.

Non solo gli accordi per il piano di «due popoli e due Stati» sono costantemente minati dai governi della destra israeliana con gli insediamenti in Cisgiordania dei coloni – ormai sono 700mila – ma anche la soluzione di uno Stato bi-nazionale è stata di fatto eliminata dalla legge ebraica sulla cittadinanza. In sostanza lo slogan scolpito oggi all’ingresso della Palestina storica è questo: «Ci siamo solo noi, gli ebrei, gli altri non esistono», e pensare che all’inizio del movimento sionista, alla fine del 19° secolo, gli ebrei qui erano soltanto il 5 per cento della popolazione.

Oltre alle crepe sul fronte israeliano interno si registra un’importante novità su quello democratico americano in quanto Bernie Sanders ha presentato al Senato una risoluzione per bloccare una vendita di armi a Israele per 735 milioni di dollari, una cifra consistente visto che grazie all’aiuto militare americano ogni anno Tel Aviv importa dagli Usa circa 5 miliardi di dollari di armamenti.

In sintesi: ogni guerra tra Israele e i palestinesi, ogni ondata repressiva, vede coinvolti gli Stati Uniti con una quota bellica preponderante. Quando si dice che gli Usa si vogliono ritirare dal Medio Oriente basterebbe questo dato, insieme all’export di armi verso le monarchie arabe assolute del Golfo e del Patto di Abramo voluto da Trump, per rendere ridicola questa affermazione.

Se è vero che in politica estera Biden si è concentrato sulla Cina, il negoziato con i Talebani e quello con gli iraniani sul nucleare, questo non significa che gli Stati uniti, autosufficienti dal punto di vista energetico, se ne vadano dalla regione.

Le guerre mediorientali sono una parte importante del budget della difesa Usa, come lo sono, sia pure in misura inferiore, anche per la Germania e l’Italia, rispettivamente secondo e terzo esportatore di armi in Israele. Quando i nostri governi fanno i finti equidistanti sulla questione palestinese sanno di vestire i panni degli ipocriti. Da queste guerre, che sono più che altro un tiro al bersaglio contro il poligono di Hamas a Gaza, con centinaia di vittime civili, ci guadagniamo indirettamente anche noi.

Del resto a queste ipocrisie europei e italiani sono abituati: qualcuno si ricorda del finto boicottaggio all’export di armi in Turchia quando Erdogan massacrò i curdi siriani abbandonati al loro destino da Trump?

La risoluzione di Sanders sta scuotendo i democratici dove finora erano in pochi a esprimersi contro Israele. Una parte dell’establishment Usa si accorge che «il diritto di Israele a difendersi» non può mascherare le continue violazione di diritti dei palestinesi. Anche se la risoluzione di Sanders potrebbe essere bloccata dal veto di Biden, che per convincere il premier Netanyahu a fermare i raid su Gaza ha fatto sei telefonate e promesso al premier altri aiuti militari per Iron Dome.

Ma è chiaro che il presunto disimpegno Usa dal Medio Oriente non è molto credibile: gli Usa hanno partecipato con Israele ai raid contro le milizie sciite filo-iraniane in Siria, in risposta agli attacchi alle basi Usa in Iraq, confermato i giganteschi contratti militari (23 miliardi di dollari) con gli Emirati, firmatari del Patto di Abramo con Israele, e certo non rinunciano alle basi nella Turchia di Erdogan e a tenere sotto pressione Teheran, i due alleati di Hamas.

E a proposito di Hamas, considerato un’organizzazione terroristica, comincia a insinuarsi l’idea, forse puramente retorica, che si potrebbe negoziare anche con i fondamentalisti.

Del resto in Afghanistan gli Usa trattano con i Talebani, responsabili di atrocità infinite. Nel Medio Oriente dell’era Biden potrebbero trovare altri spazi dittatori e regimi autocratici, sempre nel nome della stabilità ben s’intende.

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