«Scholzen». L’ultimo neologismo sussunto dalla grammatica tedesca definisce l’atto di temporeggiare di chi si trova sospeso tra l’impegno di inviare a Kiev armi letali, ma non troppo pesanti, e la promessa di diventare indipendenti dal gas di Mosca, ma non prima della fine dell’anno.

Verbo cucito su misura per Olaf Scholz, soprannominato dai media nazionali «il cancelliere di guerra» anche se pare che quella in Ucraina non abbia alcuna intenzione di combatterla fino alla sconfitta di Putin.

AL CONTRARIO di Usa, Regno unito e Paesi dell’Est e con buona pace della connazionale Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue. Nonostante le nette, dure e teoricamente inequivocabili, parole scandite dal palco di Davos.

«Putin non può vincere la guerra perché ha già mancato gli obiettivi strategici, quindi non sarà certo lui a poter dettare le condizioni della pace. A chi vuole tornare a nazionalismo e imperialismo e all’epoca dei conflitti armati rispondiamo: non con noi! Siamo di fronte a una svolta epocale».

La Difesa comune europea? Questo è un altro discorso, fa capire Scholz. Nonostante abbia archiviato la neutralità tedesca scolpita in Costituzione dando il via libera al mega-riarmo della Bundeswehr, il leader Spd a Davos non dedica mezza parola ai progetti per la sicurezza comunitaria immaginati a Bruxelles, lontanissimi dai piani di Berlino.

Le sanzioni? Meglio non parlarne, se non in termini generici. Alla guerra dell’energia (per conto la Germania) ci pensa il vice-cancelliere Robert Habeck dei Verdi, ministro con doppia delega a Economia e Transizione ecologica. Proprio ieri ha istituito la task force di esperti incaricata di sostituire con petrolio non-russo il greggio di Rosneft pompato nell’oleodotto Druzhba, attualmente raffinato nell’impianto di Schwedt.

PER ADESSO si sarebbero fatti avanti due compratori – confermano negli ambienti vicini ai Verdi a Berlino – però se a breve Putin bloccherà completamente le forniture o l’Ue imporrà l’embargo petrolifero sono a rischio 1.200 posti di lavoro nel Brandeburgo.

Il risultato è che Scholz finisce nel mirino del primo canale della tv russa ma anche sotto il tiro dell’ambasciatore ucraino in Germania, Andrij Melnyk, che come sempre è ad «alzo-zero».

«Siamo delusi. Militarmente Berlino ha abbandonato l’Ucraina. Credo che nel governo tedesco manchi la leadership», tuona il diplomatico che tre settimane fa definiva Scholz «una salsiccia di fegato» e ieri spiegava sul quotidiano Bild che a Davos da lui si sarebbe aspettato la garanzia di passi concreti.

Vuol dire panzer, missili anti-tank e altri sistemi d’arma made in Germany di ultima generazione e non più solo i resti di magazzino della Bundeswehr; tutto da spedire a Kiev in tempo per «soffocare la gigantesca offensiva scatenata dei russi nel Donbass» come tiene a precisare Melnyk.

AREA DEL CONFLITTO incandescente dopo che l’esercito di Putin ha sfondato il fronte a Severodonetsk, città che rappresenta la chiave di volta dell’intero arco difensivo del Donbass.

Regione nominata non a caso dall’ambasciatore del governo Zelensky, ma anche sulla bocca dell’opposizione guidata da Friedrich Merz, segretario della Cdu in cui «off the record» più di un deputato ammette di pensare che Scholz, in buona sostanza, stia solo aspettando la rottura dell’equilibrio militare nel Donbass.

Sarebbe il preludio del cessate al fuoco che a Berlino non hanno mai smesso di inseguire, nonostante i proclami di intransigenza. «I “semafori” di Scholz continuano a far arrabbiare l’Ucraina. È veramente del tutto incomprensibile che la coalizione di governo non abbia inviato alcun membro del Bundestag a Davos per spiegare le proprie politiche», è l’altro sintomatico dettaglio apparentemente colto solo dalla Süddeutsche Zeitung.

«Scholzen», appunto; che non è «merkeln» (verbo coniato per il mediazionismo esasperato di Angela Merkel) perché banalmente il multilateralismo puntellato per 16 anni dall’ex cancelliera dallo scorso 24 febbraio non esiste più.

«NON CREDO però a un nuovo bipolarismo tra Cina e Stati uniti», è la chiosa di Scholz a Davos. In attesa dei tempi che verranno, insondabili perfino per una vecchia volpe della politica tedesca come l’ex falco delle Finanze e presidente del Parlamento, Wolfgang Schäuble.

«Non invidio chi deve prendere le decisioni a Berlino», dice l’ex pupillo di Helmut Kohl negli anni del Muro, quando comunque i margini di manovra tra Est e Ovest erano più larghi e i ponti di dialogo non completamente distrutti.