Sami Abu Shehadeh non risponde alle chiamate dai numeri che non conosce. E in questi giorni ne arrivano tante al capo del partito nazionalista arabo Tajammo/Balad, che martedì per poche migliaia di voti non è riuscito, come il Meretz (sinistra sionista), a superare la soglia di sbarramento del 3,25%. Molti lo chiamano per congratularsi o per rincuorarlo e spronarlo ad andare avanti sulla strada della piena indipendenza dagli altri partiti arabi.

Altri invece vorrebbero urlargli contro il dispiacere per la rottura con la Lista unita araba (Lua) che, di fatto, ha permesso al blocco delle destre di conquistare altri seggi alla Knesset. Chi gli sta intorno lo descrive sereno. «Sami (Abu Shahadeh) non ha il minimo dubbio, è certo di aver fatto la scelta giusta non andando con la mustarake (Lua)» ci dice Wassim, un attivista impegnato nella estenuante campagna elettorale condotta dal leader di Balad per portare alle urne e a votare per il suo partito il maggior numero di arabo israeliani. «L’aumento dell’affluenza araba dal 45 del 2021 al 54% è anche merito dell’impegno di Sami» afferma Wassim.

Per Abu Shahadeh il risultato elettorale conta poco, anche se entrare alla Knesset avrebbe significato la realizzazione di quella «rivoluzione» che va predicando da oltre un anno. «Il problema non è far parte o non far parte del governo, il problema è il razzismo», afferma, aggiungendo che l’avvento al potere il primo novembre di «forze razziste» (Sionismo religioso) è l’esito scontato di un clima ostile alla minoranza araba in Israele che dura sin dalla nascita dello stato nel 1948. Abu Shahadeh inoltre non condivide l’idea di Ayman Odeh, il leader della Lua, di cooperare, sia pure solo a certe condizioni, con i governi di centrosinistra.

«Destra e centrosinistra in questo paese sono più o meno la stessa cosa quando devono confrontarsi la con miniranza araba», dichiara il leader di Balad. Una linea che condividono decine di migliaia di arabo israeliani. «Penso che Balad abbia iniziato un percorso nuovo e importante – ci dice Rana Bishara, artista nota della Galilea – di indipendenza da giochi politici che non possono e non devono interessarci, perché non fanno mai i nostri interessi che sono l’uguaglianza in Israele di tutti i cittadini e la fine delle discriminazioni contro gli arabi».  Bishara però ammette che il ritorno al potere di Benyamin Netanyahu, seppur previsto, e l’ingresso nella stanza dei bottoni di Sionismo religioso e del suo leader Itamar Ben Gvir «fanno immaginare scenari di grande preoccupazione».

Sono diversi gli stati d’animo nella comunità araba, che compone il 21% della popolazione di Israele, dopo il voto di martedì. Accanto ai sostenitori di Balad, c’è un’altra ampia porzione di popolazione araba che non nasconde i suoi timori per le incertezze del futuro. Senza dimenticare che anche il Meretz difensore (non senza ambiguità) dei diritti degli arabi in Israele e dei palestinesi nei Territori occupati non sarà più in parlamento, dopo trent’anni.

Il Meretz ha sempre ricevuto nella sua storia un numero consistente di voti dalla classe media araba. Non sorridono neanche i simpatizzanti del partito islamista Raam, nonostante la soddisfazione che ostenta il suo leader Mansour Abbas. Entrando nel governo uscente Bennett-Lapid, Abbas, un Fratello musulmano moderato, credeva di aver rotto un tabù e di aver aperto agli arabo israeliani la strada della condivisione del potere con gli ebrei. «Al contrario – spiega Raji, un insegnante di Umm el Fahem – la partecipazione araba a un governo di partiti sionisti ha avuto l’effetto di innescare i peggiori sentimenti anti-arabi in quella ampia parte di popolazione ebraica che Itamar Ben Gvir rappresenta».

Nei Territori occupati palestinesi, attraversati da forti tensioni in questi ultimi mesi e terreno di frequenti e letali incursioni dell’esercito israeliano, il prossimo ritorno di Netanyahu sulla poltrona di primo ministro e la drammatica ascesa dei suoi alleati di estrema destra e ultraortodossi hanno suscitato poco più che un’alzata di spalle da parte di tanti palestinesi. I problemi quotidiani sono altri. L’offensiva militare lanciata nei mesi scorsi dal premier centrista Yair Lapid è stata la più ampia dal 2002 e la chiusura di Nablus, di altri centri abitati e di tante strade della Cisgiordania ha avuto un impatto sulla debole economia palestinese aggravando la condizione di migliaia di famiglie.

Gran parte dei palestinesi sotto occupazione, perciò, non scorgono alcuna differenza sostanziale tra Lapid e la destra. Qualcuno si proclama ottimista: «Dopo le elezioni di martedì – commenta Firas, di Betlemme – Israele non presenterà più al mondo il volto telegenico e rassicurante di Lapid ma quello spaventoso di Ben Gvir». Nell’Autorità Nazionale (Anp) di Abu Mazen al contrario la vittoria di Netanyahu e dei suoi alleati è vista come un nuovo colpo al progetto nazionale palestinese. Il netto spostamento a destra dell’establishment israeliano allontana ulteriormente la possibilità di una ripresa dei negoziati tra Abu Mazen e Israele.