Cultura

Antoine Wauters, la memoria siriana svelata nella poesia

Antoine Wauters, la memoria siriana svelata nella poesiaUn’immagine dal documentario «A Flood in Baath Country» di Omar Amiralay (2003)

L'intervista Parla l’autore di «Mahmoud o l’innalzamento delle acque», pubblicato da Neri Pozza. Un romanzo in versi indaga la realtà di un popolo oppresso a partire da ciò che una diga ha seppellito. «Il protagonista si immerge ogni giorno per vedere cosa gli ha rubato il regime: l’amore, la bellezza, i sorrisi dei bambini, la speranza»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 28 giugno 2023

Un’opera mastodontica pensata per cambiare il volto del Paese, un frammento di quella modernizzazione autoritaria che negava libertà e diritti in nome dello «sviluppo», ma che nei fatti doveva servire soprattutto ad affermare «la gloria» del potere degli Assad, ininterrottamente alla guida della Siria dal 1971 ad oggi.

È a ciò che la diga di Taqba, creata all’inizio degli anni Settanta lungo il corso dell’Eufrate per volere di Hafez Al Assad, il padre dell’attuale despota di Damasco, Bashar, ha cancellato che dà voce Mahmoud o l’innalzamento delle acque (traduzione di Stefania Ricciardi, Neri Pozza, pp. 140, euro 17) dello scrittore e drammaturgo belga Antoine Wauters. Uno straordinario romanzo in versi che rivela con estrema delicatezza ciò che il lago creato artificialmente dall’uomo ha spazzato via brutalmente: città, storie, ricordi, memorie. Attraverso la figura del poeta Mahmoud Elmachi che ha scelto di vivere accanto a quella che è stata la sua vita di un tempo, ormai inghiottita dai flutti, Wauters sottrae all’oblio la storia di questo Paese ferito restituendola in frammenti intimi che parlano della vita domestica come della guerra, della lotta per la libertà e della violenta repressione subita da quanti hanno deciso di non arrendersi. Così, pian piano, dalle acque emerge un mondo davvero perduto solo per quanti si sono rassegnati e riprende forma quella immensa «bellezza distrutta dalla paura».

Antoine Wauters, foto di Benedicte Roscot

All’origine di questo romanzo lei pone prima di tutto la volontà che si torni a parlare della realtà terribile della Siria e del regime che opprime da decenni quel Paese e quel popolo: è una tragedia di cui ci siamo dimenticati o che non vogliamo vedere?
In realtà volevo fare qualcosa di simile a ciò che fa Mahmoud nel libro: far luce su un argomento che non è abitualmente sotto i riflettori, parlare della storia della Siria e del suo popolo, tornare a come la famiglia Assad ha preso il potere a scapito del proprio popolo. Mi sentivo come se fossi diventato «indifferente» a quello che stava succedendo lì, mentre quei fatti dovrebbero riguardare tutti noi. Non solo perché la regione dell’Eufrate ha visto nascere le prime città del mondo, l’agricoltura e tante altre cose che hanno cambiato il corso della storia, ma perché la sofferenza non dovrebbe conoscere confini. Quello che voglio dire è che, nella sventura, non siamo diversi, non siamo estranei: siamo fratelli e sorelle. Ho voluto ricordarlo attraverso questo libro, cercando di parlare il più semplicemente possibile al cuore degli uomini.

Il romanzo ruota attorno al lago di al-Assad creato dall’uomo quando è stata eretta la diga di Taqba sull’Eufrate e che ha cancellato villaggi e ricordi di quanti vi abitavano. Cosa rappresenta questo luogo e di cosa ci parla davvero in relazione alla storia recente della Siria?
La costruzione di questa diga fu intrapresa alla fine degli anni Sessanta da Hafez Al Assad, il cui desiderio era modernizzare il Paese: sviluppare l’agricoltura, l’elettricità e offrire lavoro alle persone, in una regione desertica dove mancava tutto. Hafez era così legato a questo progetto titanico che non fermò il sito neppure durante la guerra dello Yom Kippur (1973). Ma Hafez, naturalmente, lo stava facendo più per se stesso che per il suo popolo. Il progetto della diga non era nient’altro che il delirio di un megalomane. Tanto che il lago artificiale che ne risultò fu chiamato «Lago Assad». Quanto alle 11mila famiglie che vi abitavano, dovevano essere trasferite. Quindi, cosa significò concretamente tutto ciò? Che all’ombra delle sue promesse di modernizzare il Paese, Hafez l’ha invece annegato, sommerso e distrutto. Pensare che parte della storia della Siria fosse finita sott’acqua mi ha toccato molto: mi è apparsa l’immagine di un disastro e ho deciso di parlarne.

Il poeta Mahmoud Elmachi ha scelto di vivere in un capanno accanto al lago per potersi immergere quotidianamente e ritrovare, sul fondo delle acque, la città dove è nato, il suo amore perduto e gli affetti, ormai lontani di una vita intera. Cosa rappresenta per lui quell’incontro con la propria memoria che sembra essere a tratti anche un po’ la memoria perduta dell’intero Paese?
Mahmoud si immerge ogni giorno per vedere cosa gli è stato rubato, cosa gli ha tolto il regime, cosa i dittatori rubano agli uomini: la bellezza, i sorrisi dei bambini, l’amore, la speranza, il desiderio. Quando si cala in quelle acque torna indietro nel tempo e ritrova allo stesso modo la sua infanzia e l’infanzia della Siria indipendente, che ha più o meno la sua età. Mahmoud non vuole più combattere. È diventato qualcuno che ci indica un cammino di pace, come Gandhi, e che ci dice che possiamo rispondere alla violenza con più fratellanza. Ma, grazie alla lampada frontale con cui si tuffa, illumina i momenti dimenticati della storia, la sua casa, il suo villaggio, il negozio di fiori gestita dal padre, e fa così rivivere ciò che il Regime ha distrutto o ha voluto cancellare. Lui stesso osserva: «Guardate qui, un giorno eravamo felici». Mahmoud è Noè. La sua barca è l’arca di Noè. Ma non contiene gli animali del creato, contiene gli ultimi bagliori e le ultime speranze della nostra umanità.

Mahmoud interpreta questi ricordi attraverso il linguaggio della poesia e sembra così trasformare la scrittura non in una semplice «narrazione» di quanto avviene o è avvenuto, ma in una parte della sua stessa vita: una sensibilità che avete condiviso con lui?
Penso di aver messo molto di me nel personaggio di Mahmoud. Mai come con questo libro mi sono confuso con uno dei miei personaggi. In questo caso ho dato a lui il mio amore per la poesia, la mia rabbia verso certi leader politici, la mia fatica di vivere in un mondo egoista, i miei dubbi sul potere della letteratura. Ho dato il massimo e l’ho fatto senza voler sedurre nessuno, perché ero in gran parte disperato mentre scrivevo questo testo. E posso dire che ciò che è stato davvero bello, anche molto bello, è che i lettori l’abbiano percepito. Hanno sentito che non c’era alcuna menzogna nel romanzo. Era il mio cuore a parlare. E credo che il grande successo che il libro ha riscosso in Francia si spieghi almeno in parte così.

Il romanzo si nutre di molti riferimenti, tra questi i documentari sulla diga di Taqba realizzati dal regista Omar Amiralay e le opere della poesia siriana contemporanea. In che modo questi elementi hanno trovato un’eco nel suo lavoro?
Devo l’idea di questo libro al regista Omar Amiralay. È stato in uno dei suoi documentari che ho sentito un vecchio, seduto su una barca, pronunciare queste parole: «Chi crederebbe che sotto il pavimento di questa barca ci sia una delle città più antiche del mondo?». L’ho trovato eccezionale. Ho voluto continuare a farlo parlare e l’ho «nutrito» utilizzando i ricordi dei miei nonni, riflessioni sul tempo e sulla memoria, ma anche i testi di decine di poeti siriani contemporanei. E l’ho fatto perché, se vogliamo provare a capire qualcosa nel nostro tempo, non dobbiamo solo accendere la televisione o navigare in rete, ma ascoltare i poeti, che probabilmente sono quello che c’è di meglio in fatto di sensibilità.

Nel suo percorso di autore, la poesia si intreccia spesso alla prosa, ma in questo caso si ha la sensazione che la scelta di scrivere un romanzo in versi abbia anche a che fare con la volontà di contrastare l’orrore narrato – il lungo regime della famiglia Assad e il suo percorso di sangue e di morte -, con un atto creativo segnato dalla grazia e, quando possibile, dalla gioia, come accade per i ricordi del protagonista. Questi versi sono il segno della speranza?
Quando ho visto che una delle torture «preferite» di Bashar Al Assad, peraltro destinato alla carriera di oftalmologo prima di arrivare al potere, consisteva nello spegnere le sigarette negli occhi dei dissidenti, mi sono detto che non potevo accontentarmi di un racconto «normale». Dovevo trovare qualcos’altro. E ho pensato che la poesia mi avrebbe permesso di parlare di questi orrori facendo sentire allo stesso tempo anche cosa ha portato la bellezza nella vita di Mahmoud, le sue gioie, i suoi sogni e il suo immenso amore. Si è parlato molto di guerra e distruzione a proposito di questo libro, ma per me è prima di tutto una storia d’amore. Un grande canto d’amore. Disperato e innamorato. Che solo la voce della poesia può racchiudere e far vivere.

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