«Ma a cosa serve essere antifascisti, basta con ‘sta roba». Tutti i giorni sentiamo questo tipo di frasi nei bar, al ristorante, nelle vie delle nostre città, anche a scuola purtroppo. Tutti i giorni ragazzi e ragazze della mia età le pensano, le pronunciano.
Sono una ragazza cresciuta in un contesto di provincia, a Pomezia, che si è sempre dovuta scontrare con il modo in cui la storia della propria città, nata dalle bonifiche del ventennio, avesse influito nel pensiero comune. Prima tra i banchi, poi nelle discussioni davanti a un caffè, per arrivare ad un momento cardine.

A risvegliare la città, infatti, è stato un fatto divenuto poi di cronaca nazionale. ‘Calpesta l’ebreo’. Una scritta davanti al mio liceo ha scosso le coscienze. Una scritta che ci ha portato a scendere in piazza mostrando a tutti un’altra Pomezia, che all’antisemitismo e ai sentimenti di nostalgia risponde con l’inclusione, la memoria, il rispetto.

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Quella scritta, la piazza che ne è scaturita, è stata per me la scintilla. In quei giorni, ancora di più, ho capito perché fosse importante essere antifascisti. Quello che è successo nella mia scuola però non è un caso isolato, non è frutto del delirio di qualcuno, ma il costante tentativo di ridare spessore a quelle idee, a quel modo di intendere la politica e la società. E’ un fenomeno che viviamo quotidianamente.

Dal 25 Settembre in poi il clima è cambiato, intorno a noi sentiamo infatti un clima di legittimazione. Ci siamo ormai abituati ai manifesti e agli striscioni che vengono continuamente affissi davanti agli istituti, come ci siamo abituati a staccarli puntualmente ogni volta che spuntano fuori. Meno frequenti, ma impossibili da ignorare, sono gli attacchi squadristi ed intimidatori.

Poche settimane fa Firenze si è riempita di decine di migliaia di persone dopo un’aggressione ripresa dai telefoni di chi era lì, ma tante altre volte questi episodi accadono e non ottengono la stessa risonanza. Fra la legittimazione e l’ignoranza, noi studenti antifascisti combattiamo una battaglia che è innanzitutto una battaglia di conoscenza.

Nell’eccidio delle Fosse Ardeatine “trucidati perché italiani”, Via Rasella “una pagina tutt’altro che nobile”. Una narrazione serpeggiante che si insinua nelle crepe del nostro sistema scolastico, che troppo spesso non riesce a sviscerare la storia della resistenza. E dove i programmi ministeriali non arrivano ci sono le associazioni studentesche, l’Anpi, le comunità educanti che provano a compensare. Perché se, come diceva Piero Calamandrei, la scuola è a tutti gli effetti un organo costituzionale, allora ogni scuola deve anche essere presidio antifascista.

Ma il grande sforzo collettivo per la costruzione di una memoria storica forte e radicata non può bastare, la nostra generazione ha il compito di interrogarsi profondamente su cosa vuol dire essere antifascisti nel presente. Perché il fascismo nei decenni ha cambiato forma e si è adattato a contesti diversi, ma sono nati anche tanti modi nuovi di essere partigiani. Perché chi salva disperati in mare, quando i governi decidono di girarsi dall’altra parte, è partigiano, perchè chi lotta anche solo per esistere quando gli viene negata la possibilità di amare è partigiano, perché persino chi tutti i giorni combatte contro lo sfruttamento e la precarietà è partigiano.

Perché aggregare un gruppo di studenti di una scuola di periferia attorno ad un’idea di società libera, eguale, giusta è partigiano. E allora la prossima volta che mi sentirò chiedere “che senso ha essere antifascisti oggi?”, risponderò: perché in questo mondo ingiusto c’è ancora tanto bisogno di partigiani.

* Coordinatrice Rete degli Studenti Medi del Lazio