Andrea Fumagalli, docente di economia all’università di Pavia, ieri i Cinque stelle hanno rilanciato una proposta di legge regionale sul «reddito di cittadinanza» in Campania. Il presidente della regione De Luca nicchia ma ha parlato di un «reddito di inclusione». Al di là delle differenze sostanziali tra queste proposte ed altre come quella del comitato di scopo che chiede una «misura integrativa regionale», perché c’è una proliferazione di formule quando si parla di sostegno al reddito di poveri, precari o disoccupati?

È un problema storico delle politiche sociali in Italia. Si moltiplicano gli ammortizzatori sociali man mano che aumenta la deregolamentazione del mercato del lavoro e cresce la frammentazione della società. Invece di istituire misure tendenzialmente universali e uniche si creano misure parziali sulla base delle tipologie contrattuali, come è accaduto con le varie forme esistenti della cassa integrazione, oppure sulla base dei criteri fiscali, patrimoniali, dell’età o dello stato familiare come avviene nel caso dei sussidi contro la povertà. Tanto più cresce il numero delle misure, tanto più aumentano la selettività e le disuguaglianze.

Non è la prima volta che si parla di leggi regionali per il reddito. Quali sono i precedenti?

Ne esistono diverse oggi. Gli esempi più interessanti risalgono a una quindicina di anni fa nel Lazio e in Campania. Quelle prime formulazioni furono, per assurdo, più avanzate di quelle attuali. Quella del Lazio aveva criteri di condizionalità inferiori, cioè permetteva al beneficiario di rifiutare una proposta lavorativa non adeguata al titolo di studio o alla residenza e stabiliva che la remunerazione del nuovo lavoro non fosse inferiore a quella del precedente. Oggi invece ci muoviamo sempre più nell’orizzonte di una politica di Workfare. La legge proposta in Campania segue le stesse regole del vecchio «reddito di cittadinanza» e si inserisce in questo solco.

I Cinque Stelle, come del resto lo stesso De Luca, sono consapevoli della limitatezza delle risorse a disposizione e sostengono che, una volta raccolte, dovrebbero andare a chi è stato escluso dall’assegno di inclusione del governo Meloni. Per paradosso, non si rischia così di creare altri esclusi per causa di forza maggiore?

In una delle regioni più colpite dalla povertà purtroppo questa situazione è l’effetto di una grave decisione politica. Se è vero che una regione non può supplire alla mancanza delle risorse centrali, bisogna però chiarire che le risorse ci sono se le si volessero trovare. Secondo la campagna Tax the rich di Oxfam si potrebbero tassare i redditi multimiliardari e ottenere dai 13 ai 15,7 miliardi di euro all’anno.

E a livello regionale?

I vincoli finanziari si fanno sentire di più, anche perché i trasferimenti da Roma si sono fortemente ridotti. In prospettiva l’autonomia differenziata peggiorerà le cose, soprattutto nel Sud. Ma c’è un’alternativa.

Quale?

Le regioni potrebbero emettere una moneta complementare che non ha vincoli di liquidità né di stabilità, non sostituisce l’euro e incrementa la potenzialità di spesa pubblica. Sarebbe garantita dalle istituzioni e potrebbe essere in grado di sviluppare un circuito economico alternativo tale da garantire politiche sociali tra cui il reddito. In Europa esistono esempi positivi: il B-Income di Barcellona. Esperimenti ci sono in Olanda o a Helsinki.

L’ex presidente della Camera Roberto Fico (Cinque Stelle) ieri a Napoli ha detto che quando torneranno al governo ripristineranno il «reddito di cittadinanza». Lei è uno dei maggiori teorici italiani del reddito di base, cosa consiglierebbe di fare in quel caso?

Credo sia importante partire da un punto fermo. Qualunque politica di sostegno al reddito non deve essere considerata una politica attiva del lavoro. Sono due ambiti separati. Il sostegno al reddito deve essere considerato un’attività remunerativa e non meramente assistenziale o di inclusione al lavoro. La ricchezza che la nostra vita quotidiana crea oggi sfugge da qualsiasi controllo e rimpingua le grandi rendite. Nulla di queste rendite ritorna al territorio che le ha generate. È una grande questione politica.

In che modo si può intervenire?

Abbiamo bisogno di una riforma dei processi di trasferimento dal centro alle regioni, di una riforma fiscale adeguata e di una tassazione delle piattaforme digitali in base al numero degli utenti e al fatturato prodotto, come se fosse una tassa di soggiorno del turismo ma ampliata a tutte le attività che sfruttano gli agglomerati metropolitani e sociali che mettono in moto economie di rete, di apprendimento e relazionali.

È una prospettiva attuabile oggi?

Non è una cosa che si può fare immediatamente. Ma pur bisogna cominciare. Le forze sia sindacali che politiche di sinistra e delle realtà dal basso dovrebbero iniziare a porsi questo problema.