Rieccoci a fare i conti con una tragedia. Nel luogo della conoscenza, quello degli incontri, delle amicizie, degli innamoramenti possibili, ancora una volta dobbiamo piangere una nostra studentessa.

Sembra che la ragione sia quella degli esami universitari e non sarebbe certo una novità, purtroppo dobbiamo constatare che ormai è un fenomeno che si ripete. Diana si è lanciata nel vuoto, mancava un esame al traguardo… e poi la tesi. Mi chiedo: ma quanto pesa un esame? Può valere una vita intera?

Diana era fuori corso: oggi il sistema universitario neoliberista guarda all’efficienza, alla produttività, alle tempistiche di una laurea. Ma riescono tutti a adattarsi a questo sistema? Siamo tutti fuori corso: fuori il corso di una vita normale, semplice, leggera, vissuta secondo la natura delle persone che è complessa, ha le sue fragilità, i suoi tempi e le sue pause. Eppure, l’aspettativa è quella del modello perfetto. Ti aspetta la laurea, la festa, gli applausi dei parenti e poi di corsa ad immettersi in un mondo del lavoro che si fa fatica a vedere… ed iniziano a crescere nuove ansie e frustrazioni. Andare male a un esame può essere vissuto come una colpa, anche andare benino perché non si è arrivati alla perfezione.

Essere fuori corso o non riuscire a stare nei tempi prestabiliti? Una catastrofe! Ho visto studenti in lacrime per un 28/30; altri intristiti per non aver avuto la lode. Chi li sta educando a questo senso di ansia e aspettativa? Chi è responsabile di formare le coscienze in questo modo? Se l’università è una comunità quel dono-dovere che la caratterizza ci riguarda tutti e anche oltre, come società.

Sono stato uno studente scarso, anzi scarsissimo. A scuola mi dicevano “non si impegna abbastanza” “è svogliato”, “potrebbe fare di più”, ma i miei affanni sono iniziati presto. Mancino mancato – decisero di cambiarmi la mano perché scrivere con la sinistra non era abbastanza dignitoso – e anticipatario al punto da ritrovarmi in primina quando ancora dovevo compiere cinque anni. Da allora una strada in salita fatta di rimandi e bocciature. Quando prendevo un voto mediocre a casa quasi si stappava lo spumante (per lo meno non ha preso scarso). Mi ero ormai abituato alla mia mediocrità, anche se a dire il vero non ci credevo tanto. Mentre mi chiamavano “ciuccio” sognavo di diventare un insegnante diverso da loro. Nella società dell’efficienza sarei stato un fallito, eppure ho fatto tesoro delle difficoltà per cercare di capire gli studenti, mettermi in discussione, comprendere le fragilità.

Sono stato un fuori corso, come Diana, nella sua stessa facoltà e università, che oggi servo come docente. Mi sono laureato a 26 anni – quasi 27 – proprio come stava facendo Diana.

Nel modello produttivista, sarei stato un ritardatario, fuori dai tempi, inutile. Invece era il mio tempo, il tempo giusto, utile per la maturazione. Quello che poi mi ha dato la possibilità e i tempi giusti per (ri)trovare la mia strada.

E allora chiedo a voi ragazzi, voi studenti… datevi tempo, non ascoltate le pressioni ingiustificate: un esame, una laurea non può mai valere una vita intera. Respiriamo, camminiamo, divertiamoci anche nella fatica di imparare, sorridiamo anche di un esame andato male (ricordo che al liceo esorcizzammo una bocciatura con una grande festa). Riprendiamo la nostra vita, dando calore a quello che davvero conta. La conoscenza sarà una normale conseguenza.

Del resto, non si produce da sola, ma nelle relazioni costruite nel tempo e col tempo. E sono queste che contano davvero. Fermiamo le morti, i suicidi, le crisi, il panico. La conoscenza è vita e anche l’università dovrebbe esserlo.