Ancora lo scontro di civiltà
Sangue su sangue «Non abbiamo precedenti per ciò che è accaduto oggi, e le conseguenze di questo attacco saranno senza dubbio terribili. Più violenza, più morti, più dolore per tutti. E così in […]
Sangue su sangue «Non abbiamo precedenti per ciò che è accaduto oggi, e le conseguenze di questo attacco saranno senza dubbio terribili. Più violenza, più morti, più dolore per tutti. E così in […]
«Non abbiamo precedenti per ciò che è accaduto oggi, e le conseguenze di questo attacco saranno senza dubbio terribili. Più violenza, più morti, più dolore per tutti. E così in fin dei conti comincia il Ventunesimo Secolo». Sono parole di Paul Auster, scritte verso l’alba del 12 settembre del 2001. In questi giorni ho ripensato spesso al dibattito che ha accompagnato i primi anni della «guerra contro il terrorismo» dichiarata da George W. Bush. Oggi come allora, l’orrore per l’attacco e per le sue sanguinose conseguenze aveva alimentato un desiderio di vendetta che venne esaltato da organi di stampa e intellettuali. Non si invocava solo la punizione dei responsabili, ma la lotta all’ultimo sangue contro una religione, l’Islam, che – riprendendo stereotipi orientalisti – veniva rappresentata come aliena e ripugnante. In Italia il tono fu stabilito da un lungo articolo di Oriana Fallaci, che poco tempo dopo divenne un libro di successo. Sulla sua scia, si fecero avanti i teocon, la versione romana dei neocon, sostenendo che, anche se Dio non ci fosse, dovremmo inventarlo, pena la rovina dell’Occidente (scritto maiuscolo ovviamente) e la fine della civiltà. Nelle circostanze dei primi anni del nuovo secolo, ciò si traduceva nell’invito a una sorta di crociata.
Nel suo libro Fallaci richiamava due sentimenti: la rabbia e l’orgoglio. La rabbia era una reazione naturale dopo l’11 settembre, come lo è oggi. Ma in politica essa è anche cattiva consigliera, lo abbiamo visto con i disastri che le invasioni di Afghanistan e Iraq hanno provocato, una lunga catena di sofferenze e lutti che continua a far sentire il proprio effetto. Provoca sgomento pensare che Israele stia per fare lo stesso errore che fecero gli Stati Uniti allora, innescando una nuova spirale di lutti e di sofferenze, che condurrà probabilmente a nuove vendette. Un ciclo che lasciato alla propria logica interna potrebbe avere termine solo con la scomparsa di uno dei contendenti. Tuttavia è sull’altro sentimento che vorrei richiamare l’attenzione.
Perché l’orgoglio? Fallaci invitava gli occidentali a rialzarsi e a recuperare il rispetto di sé attraverso la lotta contro un nemico mortale. Rilette oggi quelle pagine rivelano un senso di vuoto, un presagio di morte, che sarebbe banale attribuire soltanto alle condizioni di salute dell’autrice (Oriana Fallaci era già malata, e sarebbe scomparsa nel 2006). L’attacco alle torri gemelle diventava una sfida esistenziale non perché fosse sufficiente a annientare la più grande potenza militare e economica del mondo, ma perché veniva interpretato come acceleratore di un processo che era già in corso da decenni, ma che con la globalizzazione post ’89 stava assumendo nuove proporzioni: l’emersione di una società internazionale in cui gli Stati Uniti e l’Europa non sarebbero più stati (collettivamente) legislatore, giudice e (occasionalmente) carnefice. Era questa la ferita all’orgoglio occidentale che richiedeva una riparazione. Tra le pessime eredità di quella stagione c’è anche il tentativo di riportare in vita lo spirito della guerra fredda, con il suo corredo di liste di proscrizione e richieste di abiura da parte di «nemici interni»: pacifisti, o anche semplicemente persone che si rifiutano di accettare la logica binaria dello scontro di civiltà. Invocando giustizia, non vendetta.
Ventidue anni dopo, alcuni dei principali protagonisti di quelle scelte politiche e delle campagne di stampa che le appoggiarono – negli Usa e in Italia – non ci sono più, così come sono scomparsi diversi intellettuali che tentarono di opporsi a quella follia collettiva, non perché fossero a favore dei terroristi, ma perché mettevano in discussione la congruenza tra il mezzo (una guerra con gravissime conseguenze per i civili, sia in Afghanistan sia in Iraq) e il fine (assicurare alla giustizia i responsabili).
Tra queste voci dissenzienti viene in mente Susan Sontag. Rilette oggi, mentre Gaza è sotto un durissimo bombardamento, le sue critiche alla politica Usa di allora suonano come il grido di allarme di una Cassandra il cui avvertimento sta per cadere nuovamente nel vuoto.
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