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Anche gli ulivi sono apolidi: un museo nomadico per la Palestina

Anche gli ulivi sono apolidi: un museo nomadico per la PalestinaKhalil Rabah, installazioni da «The Palestinian Museum of Natural History and Humankind» – Courtesy Fondazione Merz. Ph. Renato Ghiazza

Fondazione Mertz A Torino arriva il museo nomadico, il Palestinian Museum of Natural History and Humankind

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 2 dicembre 2023

«Il Palestinian Museum of Natural History and Humankind è cubista nella sua impossibilità; è occupato, esiliato nel suo territorio e, al contempo, ovunque nel mondo. È un luogo unico e innovativo che attende il nostro ritorno prima di trovare fissa dimora. Con lo sguardo rivolto a quattro secoli fa, tanto antipatriottico quanto inefficiente, è l’ostinazione ottusa del rifugiato, l’oggetto di un disprezzo naturale. (….). È l’ossequio di una terribile ignoranza, esige l’infinito delle tracce e persevera noncurante delle frammentazioni. È una riabilitazione locale del futuro».

Lo presenta così, in grandi pannelli estraibili e consultabili da qualsiasi visitatore, il suo museo nomadico dell’umanità Khalil Rabah (Gerusalemme, 1961), che da anni prende strade vagabonde e gira fra i continenti, arricchendosi a ogni tappa di un archivio della memoria, fra finzione realtà. Nella tappa di questo autunno è sbarcato alla Fondazione Merz di Torino, proprio nei giorni in cui la già tragica storia del Medioriente stava cambiando ancora una volta, ripiombando nel dramma più cupo: l’attentato sanguinoso di Hama s del 7 ottobre e poi la guerra feroce di Netanyahu a Gaza hanno fatto da cornice emozionale e perturbante alla mostra (a cura di Claudia Gioia, visitabile fino al 28 gennaio 2024) che l’artista ha voluto lo stesso portare oltre confine.

Il Palestinian Museum of Natural History and Humankind non ha una sede né radici fisse se non dentro di sé, eppure possiede una sua collezione permanente: sono semi, stratificazioni geologiche, pietre (divelte da territori occupati, che in un video vediamo andare all’asta, in un ironico contrappunto concettuale), manufatti, prodotti della terra. Come l’olio, che qui a Torino forma un fiume luccicante e sinuoso, dagli argini spezzati, frammentati dentro mille riflessi di biografie interrotte. A narrare una possibile storia universale, tramite indizi nascosti, ci sono elementi riguardanti la flora, la geologia e l’eredità culturale della regione palestinese. Per Rabah, il museo è un luogo che cerca di contenere ed espandere un non luogo (la Palestina certo, ma non solo, poiché si rivolge ai molti abitanti del mondo che appartengono a minoranze etniche, culturali, religiose, eterni esiliati da un’avara geografia politica): non ha un consiglio di amministrazione, né direttori, niente di monumentale nelle sue sale. È un cantiere con lavori in progress, che «agisce» e fa ricerca quando vuole, lavorando soprattutto intorno a isole tematiche: l’identità ma anche i nazionalismi e l’invenzione della Storia.

Di formazione architetto, studi in Texas, poi il rientro fra Ramallah e l’Europa (con un passaporto anche americano che gli consente più facili spostamenti), Khalil Rabah ha visto nell’arte una forma di ribellione. La sua istituzione museale fittizia – che annovera tra le sue tappe Istanbul, Amsterdam, Londra, New York, Roma, Atene e Sharja – è un dispositivo di controinformazione, una narrazione anti-ufficiale e anti-retorica, e un pensiero critico vagante che, come fa pure il libanese Walid Raad con il suo collettivo immaginario Atlas Group, smaschera le pagine apocrife (o gli abusi) nella riscrittura dei documenti.

Presso la Fondazione Merz, là dove albergano anche gli igloo, rifugio precario per antonomasia, il Palestinian Museum of Natural History and Humankind – che prevede poche sezioni per il momento, geologia, botanica (una raccolta di specie autoctone), paleontologia, antropologia – si presenta nella forma di un esteso scavo archeologico. Affiorano oggetti, brandelli di tessuti ricamati con tecniche ancestrali, rami e foglie di piante perdute, sradicate, apolidi, come quegli ulivi in perenne trasloco visivo, in cerca di un loro posto al sole dove prosperare in pace.

In mostra, si va anche in Brasile: l’opera Acampamento Vila Nova Palestina (2017) racconta con le sue sagome tagliate via gli invisibili delle favelas che hanno scelto di dare quel nome alla loro «città disseminata». Invece, l’installazione 50.320 Names tenta una mappatura degli edifici storici e degli abitanti in un territorio frantumato e nei suoi numerosi villaggi, con le «identità» dei proprietari delle case mai registrate al catasto perché non era in uso nel passato. C’era un diritto di appartenenza e di riconoscimento gli uni degli altri.

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