Analisi del voto, il mistero Azione. Renzi rivendica i «suoi» risultati
Elezioni 2022 Il terzo polo (in realtà sesto partito) è andato bene dove la guida era di Italia Viva
Elezioni 2022 Il terzo polo (in realtà sesto partito) è andato bene dove la guida era di Italia Viva
Un partito che prende voti da destra, ma anche da sinistra. Dai cattolici, ma anche dai laici. Radicato nei centri storici e nelle mitiche Ztl, ma che comunque non crolla nelle zone periferiche. Per gli istituti di ricerca, Azione è sostanzialmente un oggetto del mistero. Se, nelle loro analisi, l’Istituto Cattaneo, Swg e Ixé concordano sul fatto che l’unica forza politica ad aver seriamente guadagnato consensi è quella guidata da Giorgia Meloni, sul listone messo in piedi da Renzi e Calenda le opinioni divergono non poco.
Per esempio, se secondo Swg il 47% dell’elettorato di questo partito viene dal centrosinistra, secondo il Cattaneo è invece da destra che arriva il 40% dei consensi. Ixé, dal canto suo, sostiene che ad aver votato per Azione sia gente che per lo più in passato ha sostenuto il Pd (11.9%), altre forze di centrosinistra (7.9%) e Forza Italia (7.4%). Un’ambiguità di fondo probabilmente dovuta a un insieme di fattori: dal fatto che l’accordo tra Renzi e Calenda sia piovuto dal cielo dopo che entrambi avevano giurato e spergiurato che mai e poi mai si sarebbero messi d’accordo, dal fatto che la coalizione di centrosinistra non ha minimamente allargato la sua base di consensi rispetto al naufragio del 2018 e dal fatto che Forza Italia – partito effettivamente concorrente, almeno in teoria – non sia affondata come molti pronosticavano.
E, in effetti, dal punto di vista strettamente elettorale, Azione, con i suoi 2 milioni abbondanti di voti e il 7.8%, ha sì dato prova di esistere e di poter legittimamente occupare uno spazio, ma di certo non ha sfondato. Azione è peraltro l’unica lista che ha fatto campagna elettorale non solo sulla mitologica Agenda Draghi, ma anche sull’idea di rinominare lo stesso Mario Draghi a presidente del consiglio: una linea che, in tutta evidenza, non ha pagato.
L’onda lunga del presenzialismo ossessivo di Carlo Calenda non s’è vista nell’urna, anzi: il risultato «a due cifre» più volte ventilato non è arrivato, i collegi non hanno fatto registrare sorprese e il conto delle vittorie si è fermato a zero, alcuni big (Teresa Bellanova, Luciano Nobili su tutti) sono rimasti fuori. Se n’è accorto per primo Matteo Renzi, che nella sua (entusiasta) enews inviata dal Giappone – è lì per i funerali di Shinzo Abe – ha citato come esempi i risultati di Milano (16%) e Firenze (15%).
Chi conosce la dialettica renziana ha già capito quale sia l’antifona: il terzo polo (in realtà sesto partito) è andato bene dove la guida era di Italia Viva. Un segnale che Calenda farebbe bene a cogliere, e non solo perché lui, a differenza dell’alleato, un po’ deluso dal voto c’è rimasto. Se in parlamento Renzi ha eletto 4 senatori e 9 deputati contro i 5 e 12 di Calenda, basta scorrere i nomi per capire che il fiorentino ha un controllo pressoché militare sui suoi, mentre il pariolino non si sa quanto possa dire lo stesso. Maria Elena Boschi, nella sua analisi, ha sottolineato il concetto dicendo le paroline magiche «noi» e «loro», a testimonianza di quanto l’atmosfera sia quella della coppia pronta a scoppiare.
Quando venne stipulato l’accordo, l’11 agosto scorso, si era deciso che Iv e Azione avrebbero fatto il gruppo parlamentare insieme e poi avrebbero fatto un congresso unitario entro la fine dell’anno. Il braccio di ferro tra i due leader – solo in parte nascosto durante la campagna elettorale: da notare che Renzi è volato in Giappone già la sera delle elezioni, con il funerale di Abe che ci sarebbe stato solo due giorni dopo – si consumerà soprattutto in quella sede. L’evidente problema di leadership verrà mascherato da questione politica: sempre Renzi, infatti, ieri si è dichiarato disponibile a sedersi intorno a un tavolo con Giorgia Meloni per parlare di riforme costituzionali. Sul punto Calenda ancora tace. L’altro elemento che incombe è il congresso del Pd: è del tutto evidente che se a prevalere non dovesse essere la parte sinistra del partito – cioè quella che vorrebbe aprire un dialogo serrato con il M5s di Giuseppe Conte – si tornerebbe a parlare strettamente di alleanze (anche) strutturali. È sulla base di questi elementi che si capirà se nasce o se muore una cosa chiamata Terzo Polo.
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