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Amir Naderi, l’età classica del cinema

Amir Naderi, l’età classica  del cinema

Intervista A Venezia 80, il maestro iraniano scorre il programma di Venezia Classici: un piccolo viaggio sentimentale

Pubblicato circa un anno faEdizione del 26 agosto 2023

Da diversi anni ormai grandi festival hanno accolto all’interno dei propri programmi una sezione dedicata ai «classici», che ha sostituito l’idea di «retrospettiva» che fino a oggi praticavano le manifestazioni più di ricerca (Rotterdam, Pesaro, Torino, Locarno, ma anche la Venezia anni ‘80, per dire, quando proponeva personali di Walt Disney o Glauber Rocha).

Sarebbe curioso mischiare le carte, ritrovarsi per esempio Ozu nel concorso principale, proprio per ribadirne l’attualità, o Parajanov e Shinji Soomai in Nuovi Orizzonti, perché la loro modernità in qualche modo è ancora tutta da scoprire. Si preferisce tenerli nel loro recinto, a distanza di sicurezza dalle luci dell’attualità.
Nel programma di Venezia Classici di quest’anno, verrà presentato il restauro digitale di Saaz dahani (Harmonica, 1973), uno dei primi film iraniani di Amir Naderi, uno dei massimi registi viventi, grande e appassionato cinefilo (si pensi al suo Cut, del 2011, col suo folle finale fatto di pugni in faccia a intervallare la sequenza dei «100 migliori film della storia del cinema»). Naderi quest’anno ha deciso di lanciarsi in una delle sue performance di visione (leggendaria quella che lo ha portato da Teheran a Londra nel ‘68 per assistere alla prima proiezione di 2001: Odissea nello spazio): quasi imbarazzato che il suo «piccolo film» sia affiancato a grandi nomi, ha deciso di vedersi tutti i titoli della selezione, per «pagare pegno», dice.
Gli abbiamo chiesto non solo di parlarci del suo film, ma di guidarci attraverso il suo occhio attento nel programma di quel cinema che oggi rappresenta la classicità, dopo aver mostrato, a più di una generazione, la propria dirompente modernità.

Che effetto ti fa ritrovarti con un tuo vecchio film in un concorso dove i tuoi ‘rivali’ sono Allan Dwan, Ozu, Visconti, Tarkovskij…
Mi piace l’idea di essere nello stesso luogo di coloro che mi hanno ispirato sin da quando ero giovane. Mi piace che il mio piccolo film passi sullo stesso schermo in cui magari poche ore prima sono passate le immagini di Ozu. Sono anche curioso di rivedere dopo tanto tempo Harmonica, che è il primo film della trilogia della mia infanzia (Waiting è il secondo, poi c’è Il corridore). Dopo i miei primi tre film girati nei teatri di posa, con grossi budget e grandi attori, decisi di fare qualcosa di diverso, perché non era quello il cinema che volevo continuare a fare. Sono contento di aver avuto la possibilità di lavorare nell’industria cinematografica, però a un certo punto ho cercato la possibilità di fare un film sulle mie esperienze, sull’ambiente in cui sono cresciuto (la strada, il sud dell’Iran), e mi sono messo in discussione come film-maker.

In Harmonica ho avuto la possibilità di lavorare con bambini che non avevano mai visto una camera prima! Sono andato nei luoghi in cui sono cresciuto (Abadan), trovando i bambini nella strada, portandoli al cinema; e mi hanno sorpreso! Dopo questo film mi sono detto di continuare in questa direzione: Waiting e Il corridore hanno approfondito quella necessità che è emersa per la prima volta in questo film. Sono grato a Kanun (l’Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e degli adolescenti) di avermi offerto la possibilità di fare questi film, dandomi una straordinaria libertà nel fare quello che volevo, e grazie a loro il film esiste ancora ora. Un’altra delle ragioni per cui ho fatto Harmonica sono i pittori impressionisti, Manet, Monet ma anche Cezanne, Gauguin e Van Gogh. Mi sono detto «come posso fare un film sul mio passato con i colori?». Il colore nel film è fondamentale, ci ho lavorato in modo maniacale, mi ricordo che sulla spiaggia avevamo pulito tutto da segnali moderni, nessuna macchina o moto, volevo il contrasto tra il mio passato e la memoria. Ho ancora il libro sugli impressionisti che usavo come ispirazione per la combinazione dei colori naturali.

Pensando anche agli altri titoli della sezione dei «classici», quali sono quelli a cui ti senti più vicino o che ti interessano di più?
La cosa importante è che, se sei un giovane regista, e guardi questi film, non hai bisogno di andare a scuola, perché ti mostrano come fare un film, in modi molto diversi tra loro. Se hai qualcosa da dire e se vuoi farci qualcosa, è un’opportunità straordinaria per imparare. Alcuni ti mostrano come usare la camera, altri come lavorare con gli attori, qualcun altro con la messa in scena, o la luce, o come lavorare col silenzio, o coi dialoghi, ognuno può insegnarti qualcosa, come esprimerti e mettere insieme una storia che si traduca in immagini, che sia una storia originale o che venga da un libro scritto da qualcun altro.

Penso che sia come vedersi 100 anni di cinema in dieci giorni! Non credo sarò più lo stesso dopo averli visti tutti, penso che anche le mie idee sul cinema cambieranno…
La maggior parte di questi film hanno portato nuove regole rispetto al fare film. O in ogni caso fanno parte di un percorso dove alcuni registi hanno inventato una nuova lingua del cinema, attraverso i loro film (dove ognuno è un tassello di un mosaico più grande): prendi Visconti per esempio, Bellissima è uno dei suoi primi film, per me è importante per la scrittura, per il senso che riesce a dare alla sceneggiatura all’interno del film… e Anna Magnani, che qui regge quasi tutto il film. All’epoca forse Visconti non aveva ancora trovato la sua vera natura, eppure il film è ancora oggi vivo per questi altri elementi. Naturalmente c’era già stato La terra trema, che è il suo folgorante esordio! Oppure Ossessione… lì c’è un lavoro dinamico tra i movimenti di camera e il luogo in cui è girato, l’atmosfera, gli attori, i non attori, il modo in cui li mischia, mischiando le carte; ma soprattutto per i luoghi, Visconti è grande in questo. Quali altri titoli ci sono?

«Rebecca of Sunnybrook» Farm di Allan Dwan
Non l’ho mai visto e sono molto ansioso di vederlo. Per me Allan Dwan e Raoul Walsh sono importantissimi nel cinema americano, hanno gettato le basi di un’intera cinematografia.

«Un sogno lungo un giorno» di Francis Ford Coppola
Voglio rivederlo per una ragione specifica. Quando il film uscì in sala credo andò piuttosto male, costringendo Coppola a vendere la Zoetrope per ripagare i debiti. Coppola è uno che ha sempre rischiato, e questo mi interessa molto. In Un sogno lungo un giorno ha ricostruito Las Vegas in studio per esempio, spendendo una cifra esorbitante. Ed è un film onirico, che mi fa pensare a Il mistero di Oberwald di Antonioni, un film altrettanto rischioso. Lo vidi e lo amai al tempo in cui uscì e nel mio paese, quando c’era la guerra, poi lo rividi in un pessimo vhs, e mi ha sempre colpito, soprattutto per l’enorme rischio che si è preso facendo un film del genere, azzardando su tutto.

«L’esorcista» di William Friedkin
L’esorcista è un capolavoro! Negli ultimi due-tre anni, mi addormento la notte ascoltando il commento ai film (nei dvd). Uno dei commenti che ho ascoltato più volte è quello di Friedkin su Vertigo di Hitchcock. Poi qualche giorno fa è arrivata la notizia della sua morte, e la cosa mi ha rattristato enormemente. È un regista che ho sempre rispettato molto perché ha fatto due film che nessun altro avrebbe potuto fare e nessuno potrà più fare: Il braccio violento della legge, uno dei migliori film su New York, vera protagonista del film, e l’altro è L’esorcista. Amo molto anche Il salario della paura. Per L’esorcista so che ebbe la possibilità di scegliere il cast, in totale libertà, gente di Hollywood e non professionisti: trovò Jason Miller, lo scrittore di teatro, Max von Sydow, e la ragazza, Linda Blair. Penso che sapesse molto bene cosa volesse fare. Non voleva che si pensasse che le persone sullo schermo fossero riconosciuti in quanto attori o attrici, voleva portare gli spettatori in quell’inferno, preso da un libro e portato al cinema attraverso la sua personale visione. Amo Friedkin! Grande cineasta moderno.

«Per il Re e per la Patria« di Joseph Losey
Amo questo film! Una delle ragioni per cui ho lasciato il mio paese è legata a Joseph Losey. Di lui mi interessa molto come ha potuto trasferirsi, da regista profondamente americano, diventando inglese. Non so come abbia fatto, forse molto dipende dagli scrittori con cui ha lavorato, a partire da Harold Pinter. Si è adattato in modo molto intelligente allo stile inglese, anche quando ha fatto Tennesse Williams. Per me è stato un riferimento molto importante quando andai a vivere a New York, deciso a fare film ‘newyorkesi’.
Una volta ho avuto anche l’opportunità di incontrarlo, per un minuto, a Parigi, era estate, dopo che alla Cinemathèque proiettarono Search, il mio film sulla rivoluzione, negli anni ‘80.
Mi piace Per il Re e per la Patria innanzitutto per lo straordinario bianco e nero, e poi per Dirk Bogarde che qui è grande. Losey tira fuori sempre il meglio da Bogarde. Ricordo ancora quando vidi il film al cinema in Iran.

«I giorni del cielo» di Terrence Malick
Ricordo quella volta che ero a Los Angeles e vidi il film nel primo giorno della sua uscita. Non scorderò mai quella inquadratura del bicchiere nel fiume…
La storia non è poi così complicata, sono le relazioni che sono complicate! Al di là della stupenda fotografia, con quella luce magica, al di là del suo stile, del montaggio.. per me è la ragazza la cosa importante, il racconto fatto dal suo punto di vista, è lei che rende la narrazione estremamente moderna. Credo che il modo di raccontare di Malick abbia influenzato tanti giovani registi, tempo dopo…

«C’era una volta un padre» di Yasujiro Ozu
Non ho mai avuto la possibilità di vederlo in una buona copia. La relazione tra padre e figlio è la grande forza del film secondo me, che si svolge davanti a quella camera fissa, una camera posta di fronte a una realtà che cambia, attraverso il movimento degli attori a cui Ozu sembra far fare quello che vuole lui. È qui, se non ricordo male, che Ozu ha trovato molto precisamente il suo stile, quello che ritroviamo in Tarda primavera, uno dei suoi grandi capolavori insieme a Il tempo del raccolto del grano e Il gusto del sakè.
Cerco sempre di insegnare il cinema di Ozu agli studenti qui in Giappone a cui faccio lezione, come fissa la camera davanti a realtà dinamiche, il modo straordinario in cui lavora con le donne e con i bambini.

«L’ombra degli avi dimenticati» di Sergej Parajanov
Amo questo film, anche nella sua pesantezza. La prima volta che l’ho visto sono impazzito perché non capivo cosa fosse, non avevo mai visto nulla di simile. In seguito ho avuto la possibilità di vederlo ancora almeno un paio di volte, senza riuscire mai a capirlo del tutto. Poi vidi Il colore del melograno, che aveva perso quella pesantezza pur conservando la sua eccentricità, e lo amai molto.
Sai, gente come Parajanov non puoi dire «mi piace» o «non mi piace», non puoi far altro che ammirarli e fare esperienza dei loro film, che sono qualcosa di unico al cinema.

«La provinciale» di Mario Soldati
Mario Soldati è uno di quei registi italiani che amo, fa parte di quella generazione di registi, insieme a De Santis e Zampa in particolare che amo molto.

«Andrej Rublev» di Andreij Tarkovskij
Vidi L’infanzia di Ivan, mi piacque e mi condizionò molto, anche se non era del tutto un film suo, se gli fu dato in mano dopo che un altro regista lo aveva iniziato, ma era chiaro che chi lo aveva realizzato aveva qualcosa di straordinario nella visione che proponeva. Poi è arrivato Andrej Rublev che è, come si dice in America, bigger than life. Tutto è straordinario in questo film: il soggetto, il lavoro con la folla, la lingua cinematografica che inventa, i movimenti di camera, il modo in cui usa silenzio (non potrò mai dimenticare la caduta del cavallo in quel silenzio…) Per me questo film è come Tolstoj. Più grande della vita. Ci sono una quantità enorme di personaggi, di luoghi, di movimenti: solo un russo poteva fare una cosa del genere! Dall’altra parte ci sarebbe Griffith, ma è un altro mondo. Per me anche Stalker è uno dei film di Tarkovskij più importanti, ma questo, con il suo schermo panoramico, all’interno del quale è disegnato il paesaggio, le icone, i personaggi, non ha eguali. Non ho mai avuto la possibilità di vederlo al cinema quindi sono molto ansioso di veder sul grande schermo.

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