Si intuisce che non è un edificio come tutti gli altri guardando il sistema di sorveglianza che c’è fuori. Reti di sicurezza, guardie armate, due o tre metal detector e un gabbiotto sull’altro lato della strada: proteggono la residenza del primo ministro di Israele, Benyamin Netanyahu.

È al numero 35 di Azza Street (Via Gaza, guarda il caso) a Gerusalemme, nel quartiere residenziale di Rehavia. La terra la comprò il Jewish National Fund nei primi anni Venti, parte della più ampia campagna di acquisto (o confisca) delle proprietà immobiliari palestinesi prima del 1948. Ancora oggi ospita gli uffici della Jewish Agency, quella che oltre un secolo porta in Israele nuovi aspiranti cittadini da ogni parte del mondo.

foto dei cancelli attorno alla residenza di Netanyahu a Gerusalemme
I cancelli attorno alla residenza di Netanyahu a Gerusalemme, foto Pavel Nemecek /CTK via Ap

La palazzina è anonima, grigia, decadente. Che ci abiti il premier non si capirebbe nemmeno, se non fosse per l’ingente apparato di sicurezza e per i banner appesi fuori, lungo il marciapiede, “Bring them back”, lo slogan che accompagna dal 7 ottobre le proteste delle famiglie degli ostaggi israeliani a Gaza. Un modo per ricordarglielo sempre, che li rivogliono a casa prima possibile. Uno dei manifesti sta appeso su un balcone del suo palazzo, ce lo avrà messo un cittadino “ribelle”.

Netanyahu ci vive con la moglie Sarah da quando la residenza ufficiale in Balfour Street è in fase di rinnovamento. I due hanno comunque una seconda casa a Cesarea di loro proprietà, piscina e ogni comfort, perché sono ricchi, molto ricchi, e le inchieste di corruzione che gli pesano sulla testa potrebbero spiegare anche perché.

Un anno fa il quotidiano israeliano Haaretz raccontò cosa c’era dentro l’appartamento al numero 35 di Azza Street: a dirlo, dopotutto, erano le mappe pubblicate nel sito del ministero degli interni, oggi – dopo quell’articolo – non sono più accessibili.

Portesta dei parenti degli ostaggi di Hamas davanti alla casa di Netanyahu a Cesarea, foto Leo Correa /Ap
Portesta dei parenti degli ostaggi di Hamas davanti alla casa di Netanyahu a Cesarea, foto Leo Correa /Ap

Finestre con i vetri anti-proiettile, balconi ermeticamente chiusi, due piccoli appartamenti comunicanti e un ingresso, tutto su tre piani per un totale di 720 metri quadrati di superficie.

Le mappe pubbliche mostravano due cucine, tre bagni, sei camere, e la loro disposizione. Non proprio il massimo per garantire la sicurezza al leader (indiscusso?) di Israele. Qualche anno prima, nel 2021, era stato il quotidiano Yedioth Ahronoth, a svelare i piani di rinnovamento della residenza in Balfour Street, stavano sul sito del Comune di Gerusalemme.

Fuori, su Azza Street, da settimane si ritrovano a intervalli irregolari i manifestanti che vogliono la testa di Bibi. Le strade che conducono a Rehavia sono piene di immagini degli ostaggi – alle fermate dei bus, nel presidio permanente dei familiari, lungo i marciapiedi.

Sopra un cavalcavia hanno appeso un banner enorme, il volto di Netanyahu tagliato a metà e la scritta in ebraico: “Sei tu la testa, sei tu il responsabile”. Di quanto successo il 7 ottobre. Il segno di una rabbia che non è mai venuta meno.

La protesta dei parenti degli ostaggi di Hamas davanti alla casa di Netanyahu a Gerusalemme, foto Ap
La protesta dei parenti degli ostaggi di Hamas davanti alla casa di Netanyahu a Gerusalemme, foto Ohad Zwigenberg /Ap

La guerra unisce, buona parte della società israeliana la ritiene inevitabile e giusta, forse perché le immagini di quanto sta vivendo la popolazione di Gaza sulle tv israeliane non passano.

Succede tutto a un’ora di auto da Tel Aviv, ma sembra un altro pianeta.

Bibi resiste e si fortifica. Finché c’è guerra, c’è sopravvivenza, la sua.