Alice Rohrwacher rêver entre les mondes è il titolo della mostra al Centre Pompidou di Parigi dedicata alla regista italiana, un itinerario che unisce i suoi film, un’installazione, la monografia Le vrai du faux. Quel «sognare tra i mondi» a cui fa riferimento il titolo dell’omaggio non è però soltanto il bordo fra vita e morte, leggenda e realtà, parola e desiderio, sacro e profano che attraversa il suo ultimo film, La Chimera, ispirazione per questo viaggio, ma afferma la potenza e la meraviglia di un immaginario capace di sorprendere lo sguardo, di essere critico e poetico, di restituire un sentimento antico e contemporaneo. Di parlarci senza imporre visioni obbligate come nella Chimera le canzoni dei cantastorie che passano da una bocca all’altra formando un racconto collettivo. In quella provincia italiana dei luoghi personali resi paesaggio mitologico, il film narra il mondo, i suoi cambiamenti, le sue fratture. E con un realismo documentario che si lascia invadere da momenti di magia, restituisce la mutazione italiana degli anni Ottanta, la fine di un’allegria innocente in un nuovo cinismo, la perdita di una comunità. Forse è per questo che, in sala da una decina di giorni, è cresciuto pian piano ma nella frenesia del mercato cinematografico non c’è pazienza; così in rete è stata lanciata una campagna che chiede di lasciare La Chimera in programmazione (la nostra conversazione avviene prima di questo) per chi vuole vedere e non lo trova più.

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Una misteriosa «Chimera» accende lo schermoNon c’è però solo La Chimera a guidare o le suggestioni al Pompidou: «Ho immaginato il percorso diviso in due parti. In una c’è una dispensa, che è la mia, da cui esce un mondo; l’ho portata da casa, contiene i materiali che uso per fare i film, sia oggetti concreti che spunti di riflessione. Nell’altra c’è il Bar Luna che è un luogo proibito, un po’ come quello dei tombaroli, ma è anche una soglia da varcare, una porta verso l’al di là» racconta al telefono Alice Rohrwacher.

Quali sono stati i riferimenti di questa ricerca?

L’Orfeo di Monteverdi, che è uno dei motivi principali di La Chimera anche se abbiamo provato a suggerire altre figure che vengono da un altrove, come era la protagonista di Corpo celeste. Nel Bar Luna le persone possono sedersi, prendere un caffè, accadono delle cose, ci sono dei ragazzi che leggono, e c’è una cabina telefonica. Si può telefonare ma in casa non c’è nessuno, e una voce sulla segreteria (che è la mia) chiede di lasciare un messaggio rispondendo a questa domanda: «Cosa ti lega al mondo?». L’idea è quella di un viaggio, di uno spazio da attraversare in una dimensione sospesa nell’al di là il cui obiettivo, pensando appunto al mito di Orfeo, è tornare sulla terra. Lì, nel momento del ritorno, ci sono le invenzioni floreali di Thierry Boutemy. Avrei già voluto lavorarci per Lazzaro felice ma era impegnato, poi ha visto il film, mi ha scritto una lettera bellissima e ci siamo incontrati, mi ha chiesto di curare una parte del Bar Luna e io ero felicissima.

«La Chimera» parla dell’Italia, come anche «Lazzaro felice», «Le meraviglie», «Corpo celeste», dialoga col tempo e afferma con grande libertà formale una ricerca che a ogni lavoro sorprende sé stessa.

Cerco un punto di vista organico con la storia che racconto che non sia né dentro né fuori. Non mi interessa la visione della regista onnisciente che controlla ogni dettaglio ma neppure quella di chi si lascia guidare dalla propria materia. Mi piace immaginarmi come un angioletto che è presente, vive quella storia ma in modo distaccato, senza essere né dio né il diavolo. Mi chiedo costantemente come e da dove guardare una sequenza, in che modo distillare i movimenti delle immagini per essere vicino alla narrazione senza soffocarla. Oggi le immagini sono un po’ le «vacche grasse» che il potere munge in modalità da allevamento intensivo. E invece va ritrovato un legame con la meraviglia che possono essere trattandole come una cosa viva davanti a noi. Mi aiuta molto lavorare con la pellicola che è a sua volta qualcosa che si tocca, con una propria esistenza. Vorrei che gli spettatori si ricordino che girare un film è cercare dei movimenti molteplici rispettandone la libertà, perché più lo lascio libero più somiglierà a quello che cerco. Si deve trovare il modo che la vita vi partecipi per raccoglierne ciò che porta.

In questo caso con la direttrice della fotografia, Hélène Louvart, avete lavorato con tre formati: 35 mm, Super 16 e 16 millimetri.

Credo che per La Chimera la pellicola è ancora più connessa alla storia che negli altri miei lavori: è un film sull’archeologia, sulle tracce del passato e la pellicola è l’archeologia del cinema, la sua memoria storica. Mi piace pensare che queste immagini arrivino ai miei nipoti, o pronipoti, lasciando il segno di una materiale divenuto ormai un reperto antico. Mescolare diversi supporti rimanda a una dimensione artigianale che appartiene anch’essa alla storia del cinema.

I luoghi dei tuoi film sono quelli del tuo vissuto, qui le zone fra Lazio, Toscana, Umbria dove sei cresciuta e abiti. Al tempo stesso assumono una prospettiva storica, sono un campo di battaglia del nostro tempo.

Mi affascina questo paesaggio italiano nei suoi legami di strazio e di bellezza, che porta in sé i segni delle lotte tra passato e presente, fra l’uomo e la natura. Quando penso a questo l’immagine più evocativa è un luogo dopo un grande concerto col pubblico che è andato via lasciando oggetti, rifiuti. I miei film si situano fra le cose dimenticate, nell’idea di qualcosa che è stato ma che non si capisce ancora cosa diventerà. Mi piace occuparmi di ciò che viene abbandonato, credo che dovremmo imparare a riutilizzare gli oggetti scartati anche in modo diverso dall’originario. Cambiare l’uso delle cose aiuta a cambiare le idee, e anche noi stessi. Lo stesso vale per il paesaggio che è un bene collettivo pure se le decisioni che lo riguardano sono nelle mani di pochi imprenditori. Ma è un’eredità di migliaia di anni lasciata a tutti, perciò dobbiamo difenderlo.

Hai scelto di ambientare «La Chimera» negli anni Ottanta che sono un momento di cesura netta per l’Italia.

È quando si afferma il potere mediatico berlusconiano prima di quello politico con l’esplosione delle tv private, dei modelli di pensiero che si radicano nella società intera. I valori del mercato si impongono e distruggono quanto c’era prima, il consumismo sottomette anche le classi popolari. Nel mondo contadino che aveva mantenuto suo malgrado una specificità di valori, e anche un senso del sacro, tutto cambia in meno di un decennio e perde la propria aura. I tombaroli sono in fondo dei piccoli ingranaggi di un sistema più grande: appaiono persino simpatici nel loro essere politicamente scorretti, maschi che ci provano con tutte le ragazze, che sono allegri, vitali. C’è però un lato sinistro in loro, che riguarda pure la loro identità di genere, quel modo aggressivo di essere con le donne specie se straniere. Soprattutto con la scelta di profanare le tombe etrusche si affermano come figli di un’epoca in cui si è deciso che nulla è sacro, che tutto può essere saccheggiato o messo in vendita, che si può persino costruire una centrale di carbone su una necropoli. La chimera dei tombaroli sono i soldi, e questo ha un significato politico perché, riflette la bramosia dell’epoca.

Allora eri una bambina, è per questo che la narrazione affidata ai cantastorie appare declinata come una leggenda, qualcosa che è già avvenuto?

Volevo restituire quei fatti come li ricordo, e nella loro dimensione leggendaria che è quella in cui mi sono stati detti dai protagonisti. Ho provato a scavare nel mito individuale per arrivare a una dimensione collettiva, è un po’come in una foresta dove tutte le radici sono collegate. In fondo le storie si somigliano fra di loro, e hanno già una dimensione epica; così le ho affidate a Valentino Santagati che è un grande musicista e un amico da tempi in cui suonavo per strada. Nelle sue strofe si ritrova la dimensione popolare della storia e questa idea che esiste perché c’è qualcuno che la racconta.

I personaggi che non si conformano a quello spirito sono stranieri; Arthur, l’archeologo inglese, Italia, la ragazza arrivata da chissà dove.

Forse perché credo che il cinema deve rendere straniero il nostro sguardo e in maniera ingenua sono convinta che i personaggi che possono farlo devono esserlo. In realtà nel film ognuno è imprigionato nella sua chimera che sono i soldi per i tombaroli, o l’amore per Arthur: non escono da lì. Italia è diversa, è la parte bella del mio Paese, è generosa, accogliente, sa come prendere il passato e trasformarlo.

I temi sono seri ma sempre con molta leggerezza.

È la leggerezza nel senso calviniano delle Lezioni americane, che permette di elevarsi sulla realtà. Mi viene in mente la prospettiva di un funambolo, che per stare in equilibrio deve essere leggero.