Alexis Díaz Pimienta, il verso giusto
Il «repentista» cubano Alexis Díaz Pimienta (foto Valerio Corzani)
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Alexis Díaz Pimienta, il verso giusto

Intervista Il poeta «repentista» cubano si racconta
Pubblicato più di un anno faEdizione del 12 agosto 2023

Siamo andati ad incontrare Alexis Díaz Pimienta nel suo quartiere, Flores. Siamo nella periferia occidentale de L’Avana, a poche centinaia di metri dal lungomare. Pranzare con questo poeta e docente è stato come partecipare a un buffet con uno show compreso nel menù. Pimienta è un piccolo vulcano indomabile. A cinquantasette anni non ha perso un briciolo dell’entusiasmo che gli ha fatto abbracciare il repentismo fin da bambino. È forse il più grande divulgatore al mondo di questa pratica poetica così peculiare e quando gli chiedi di parlarne ancora una volta è come alzare il fuoco che innesca la valvola di una pentola a pressione…

Com’è iniziata la tua storia di repentista?
Io sono nato a L’Avana, che in teoria non è un centro propulsivo del repentismo a Cuba, perché il repentismo è un’arte rurale, un’arte guajiro, una pratica che normalmente si esercitava nei campi, non in città. Ma mio padre arrivava da una zona rurale, così come i suoi amici. Per questo in casa mia ho ascoltato le improvvisazioni in versi fin da piccolo, e nel mio salotto o nel patio insieme a mio padre arrivavano i migliori repentisti di Cuba a declamare in versi. E io stesso ho cominciato quando avevo soltanto cinque anni. Non sapevo ancora leggere e scrivere, ma sapevo già «parlare in rima».

E tuo padre era contento di questo?
Mio padre era contentissimo, mi vedeva come una specie di piccolo eroe, di bambino prodigio. Era molto orgoglioso di questo mio talento precoce. Devo anche confessarti che a mio padre piaceva molto il rum e qualche volta mi utilizzava per farsi una bevuta gratis: scommetteva coi suoi amici che io avrei improvvisato in rima partendo da qualunque tema loro avessero scelto. Io lo facevo e lui si faceva un bicchiere a spese loro. Per lui era un gioco, per me era una scuola.

Come hai fatto ad imparare il repentismo da fanciullo?
L’improvvisazione è un’arte comunicativa, un’arte della parola viva, urgente, ed è legata a un’estetica, a una struttura, a una grammatica, a una sintassi identica a quella della lingua in prosa. E quando l’apprendi si incorpora al tuo modo di esprimerti come se fosse una lingua. Ed è quello che mi è successo. Ho imparato a parlare in versi con la stessa naturalezza di un discorso in prosa.

I luoghi della tua infanzia sono legati anche a due grandi intellettuali…
È vero, è come se avessi avuto due mentori, anche senza conoscerli, perché la casa in Centro Habana dove sono nato era nello stesso quartiere dove si trovava la cava in cui il grande poeta e attivista Jose Martì venne costretto ancora minorenne ai lavori forzati nel 1869. Poi ci siamo trasferiti nella periferia de L’Avana, dove allora iniziava la campagna, in particolare nel paesino di San Francisco de Paula, dove Ernst Hemingway aveva la sua fazenda cubana, la Finca Vijia. Io sono andato a scuola in un edificio che si trovava proprio dentro la Finca Vijia, lì ho fatto il mio tirocinio pre-universitario. Mi piace dunque pensare di avere avuto qualcosa da Martì per diventare poeta e qualcosa da Hemingway per diventare «storyteller»: non è niente male come binomio ispirativo.

Mi sembra di capire che il tuo sia stato un apprendistato molto fertile e che aggiorni continuamente.
Proprio così. La nostra è l’arte della decima, la strofa classica del «siglo de oro», con una struttura fissa: l’insieme di strofe poetiche di dieci ottonari, ossia dieci versi di otto sillabe che devono essere messe in rima secondo uno schema prestabilito. Ma ad esempio entrare in contatto con grandi maestri italiani (in particolare sardi e toscani) mi ha aperto ad altri mondi espressivi: al sonetto sardo praticato da un fuoriclasse come Bernardo Zizi o all’ottava rima decantata da un maestro come il grossetano Mauro Chechi. L’ottava rima è il metro usato nell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto e nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, ma sentirlo decantare improvvisando da tanti maestri toscani, compreso il mio amico David Riondino, è stato un modo per abbeverarmi alla fonte, con un plus di energia e di urgenza poetica.

Nei tuoi libri hai anche rilevato come l’arte di improvvisare versi sia una pratica globale e hai mappato queste matrici.
È così. Pensa che solo in Messico ci sono tre tradizioni con metriche e collocazione geografiche diverse legate a quest’arte. In Venezuela ce ne sono cinque o sei, in Brasile pure, in Perù, in Costarica, in Cile… insomma tutto il centro e sudamerica ne è pieno, nessun paese fa eccezione. E a chi obbietta: «Certo, si tratta di pratiche importate dalla Spagna e dal Portogallo, per forza ci sono anche qui», io rispondo «no caro, questa è una mezza verità. Certo a Cuba e in molti paesi sudamericani si improvvisa in spagnolo perché siamo stati colonizzati dalla Spagna che ci ha imposto una lingua, ma sono state ritrovate testimonianze di repentismo precolombiano: racconti di navigatori e conquistadores che avevano assistito a repentismi in lingua quechua, guaranì, olmeca, totonaca, purépecha. Dunque questa pratica già esisteva. E questo florilegio continua se si guarda al mondo: si improvvisa in Grecia, in Corsica, in Sicilia, in Cina, in Africa, in Groenlandia, in Russia… Insomma abbiamo a che fare con un’arte universale che non corrisponde né a una sola lingua né a una sola metrica.

Hai trasformato quest’attitudine in un metodo didattico, smentendo coloro che sostengono (succede anche tra i jazzisti) che l’arte dell’improvvisare non si insegna.
Ho scritto un saggio di 720 pagine, Método Pimienta para la enseñanza de la improvisación poética, per rispondere alla domanda se improvvisatori si nasce o si diventa. Ho tenuto corsi di repentismo in ogni parte del mondo, ma il mio metodo prima l’ho perfezionato su mio figlio che grazie alle mie dritte, a sei anni, già sapeva declamare in versi. È un percorso didattico che comprende giochi orali e scritti, e centinaia di esercizi che possono essere svolti da soli o in compagnia, utilizzando la rima, la metrica, la memoria, i sinonimi, le filastrocche. Il mio metodo prova a ribaltare la domanda dell’insegnante messicano Guillermo Velázquez che si chiedeva se l’improvvisatore «nace o se hace», ebbene secondo me «l’improvvisatore nasce facendo».

Quali sono i temi del repentismo?
Non c’è nessun argomento privilegiato. Diciamo che il tema per eccellenza è parlare del «qui e ora», quello che io chiamo il tema «circostanziale». Io ad esempio adesso improvviserei subito un verso su «un giornalista che sta intervistando un repentista» (e qui Pimienta parte con una mirabile improvvisazione in decima che si chiude con: «a mi el mi viejo m’enseñò a demostrar ahora mismo que l’arte del repentismo quasi nadie n’olviedo» («il mio vecchio mi ha insegnato a dimostrare che in questo momento l’arte dell’improvvisazione quasi nessuno l’ha dimenticata» ndr).

Pensi che il gotha della letteratura cubana, il circolo degli autori mainstream, abbia finalmente capito che il repentismo è un’arte così creativa, così urgente, così importante?
No. Credo che ci sia un rispetto di facciata, un’ammirazione superficiale. Ma la cricca degli autori e dei critici mainstream in realtà non sa nulla delle trame linguistiche, dei codici e delle risorse di questa pratica. Tantomeno sono consapevoli della scienza occulta che c’è all’interno della non-scienza del repentismo. Quando va bene i repentisti sembrano, a questo potentato di intellettuali, solo dei tipi simpatici che parlano in rima, che spesso fanno sorridere chi li ascolta e che conservano un retaggio rurale troppo primitivo. I media ufficiali, l’élite delle cattedre universitarie, gli autori di grido, la vedono ancora come una bizzarria folkloristica e non si accorgono che alcuni dei grandi repentisti del secolo scorso, magari non sapevano scrivere il proprio nome, ma si portavano dietro un bagaglio culturale orale che questi signori se lo sognano.

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