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Aleppo, l’ostinazione di chi resta

Aleppo, l’ostinazione di chi restaAleppo martoriata dalla guerra civile – LaPresse/Reuters

Reportage Nella seconda città della Siria 400 mila persone, quel che rimane di suoi 2 milioni di abitanti, resistono a una guerra che non risparmia neanche gli ospedali. Tra cumuli di macerie, senza luce né acqua, monta l’odio per tutti gli schieramenti. «Non vogliamo né le forze di Assad né i ribelli».

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 13 maggio 2015

Yaman ci dice che «il tonfo delle pale del rotore di coda degli elicotteri e l’esplosione di ordigni liberati dalle truppe del governo siriano ormai sono rumori familiari; familiare è la corsa disperata delle mamme con in braccio i figli verso i piani più bassi degli edifici già devastati; e familiare è anche l’inevitabile carneficina umana negli ospedali». Non sono sicuri nemmeno quelli. Bombe e mortai cancellano senza alcun preavviso l’esistenza di uomini che lavorano, vivono e muoiono tra quelle vecchie mura macchiate di iodio.

Nella metà orientale di Aleppo si muore. La città è contesa tra le forze governative, che hanno il controllo della parte occidentale e che continuano ad avanzare verso nord, e le forze di opposizione, con capolista il Fronte al-Nusra, il braccio siriano di al-Qaeda, che ha il controllo della parte orientale della città. Il quartiere di Sheikh Maqsoud è sotto il controllo delle autorità curde. Almeno 19 gruppi armati invece gareggiano per i quartieri al confine tra le tre aree. Cumuli di macerie alti decine di metri coprono vie e strade dell’antico tracciato ellenistico. I segni di una guerra che ha promesso la speranza, ma ha invece consegnato alla Siria solo anni di disumanità.

Solo polvere grigia e odore di fuoco

«Ieri pomeriggio ho respirato dentro una nuvola di fumo e polvere, dopo aver sentito quel rumore assordante che ti scoppia dentro il torace. Era un’esplosione vicino a una bancarella di frutta. Né il venditore né il suo cliente si sono tirati indietro. Io ero dall’altra parte della strada», ci racconta Hanan. Carrelli di arance, mele, banane e cocomeri gettati violentemente per terra senza più colori né sapori. Solo polvere grigia e odore di fuoco. E’ questa oggi Aleppo.
Chiediamo a Khalil, un vecchio signore del quartiere di al-Sakhour, perché 400.000 persone si ostinano a rimanere ancora ad Aleppo. Risponde con un sorriso, una rarità nel nord della Siria. «Questo è il posto da dove vengo e questo è il posto dove morirò».

Nei giorni scorsi, il quartiere è stato nuovamente e duramente ferito da raid aerei delle truppe governative. Colpito l’al-Sakhour hospital, costretto a sospendere tutte le attività. Nel solo mese di marzo nell’ospedale sono stati ammessi 2444 pazienti e sono state eseguite più di 300 procedure chirurgiche d’urgenza. Mentre ad al-Sakhour i feriti vengono malamente medicati nei pochi sotterranei e rifugi rimasti, di fronte, nel quartiere di al-Shaar, il Fronte Islamico cura i suoi combattenti in un ospedale da campo, ambiguamente sponsorizzato dagli Emirati Arabi.

La nuova famiglia di Ammar

Ammar cammina sui ciottoli lisci e tra i palazzi smembrati di al-Shaar, zoppicando vistosamente. Kefiah a quadretti bianchi e neri in testa, una sorta di uniforme militare verde scuro, nessuna arma. Ha 21 anni e il Fronte Islamico è la sua nuova famiglia. Lui la chiama così. È saltato su un ordigno: «Sono stato operato già una volta – dice -, ho viti e placche di acciaio nella mia gamba sinistra. Ho avuto un’infezione sulla ferita. Non cammino ancora bene. Ma tornerò presto a combattere. Allah mi ha dato una seconda possibilità».

Secondo l’ultimo report di Human Rights Watch, su Aleppo si combatte una guerra aerea indiscriminata e illegale contro i civili. Nell’ospedale da campo di al-Shaar c’è una connessione internet via satellite. Ammar segue così i suoi “fratelli”. Questo è l’unico modo per avere notizie. Per quasi due anni nelle zone della Siria contro il regime, tutti i mezzi di comunicazione, telefoni fissi e rete mobile sono stati tagliati. «Quando combattevo avevo un walkie-talkie sempre con me, è così che comunicavo le mie posizioni, i miei spostamenti, le mie azioni».

13est2 aleppo

Dai rubinetti che rimangono nelle case martoriate, l’acqua corrente c’è per un’ora a settimana. È appena sufficiente per riempire i serbatoi stipati sui tetti delle case. Layal ci dice: «Quando non ci riesco devo comprare l’acqua da un pozzo. I nuovi pozzi sono stati scavati in modo casuale, in mezzo a quartieri affollati, senza gli ingegneri o gli studi».

Ci racconta che nel quartiere di al-Sukkari hanno energia elettrica per circa quattro ore al giorno, così tante persone pagano per avere una fonte alternativa di luce. Spesso l’elettricità manca per una settimana intera. I commercianti locali hanno investito molto denaro in grossi generatori e distribuiscono energia elettrica agli altri con un canone mensile. Mentre parla, Mohamad piangendo le tira l’hijab. «Voglio portare la mia bici fuori per giocare, ma i miei fratelli non me lo permettono, perché è passato un aereo di Assad nel cielo». Mohamad ha solo sette anni e non ricorda la vita prima della guerra.

Layal gli spiega pazientemente che qualcuno potrebbe prenderlo. Ci dice con il terrore negli occhi: «Potrebbero buttare il suo corpo ovunque. Non ci sono le autorità a indagare, non c’è polizia. Ci sono gruppi di ribelli grandi e piccoli che si dividono strade e edifici e la gente conosce solo quelli che hanno basi nel loro distretto. Qui vicino ci sono i combattenti del gruppo Fistaqum Kama Omarit. Gli altri non li conosco».

Il mondo dei ribelli e la vecchia Aleppo sono separate da una linea a zig-zag da sud-est a nord e il controllo dei territori è rimasto praticamente invariato per mesi. Le uniche cose che hanno ancora in comune sono il caffè e il narghilè.
Il paesaggio è ripetitivo: sagome di edifici quasi crollati, camere aperte e facciate intatte. Squadre di elettricisti rattoppano linee elettriche rotte dopo ogni attacco. Ospedali sotterranei continuano a funzionare, mantengono banche del sangue e continuano campagne di vaccinazione.

La solita infezione cutanea

Le indicazioni per arrivare nel quartiere di Bustan al-Qasr suonano addoloranti. «Passa l’edificio completamente distrutto. Poi gira a destra dopo l’edificio con i graffiti colorati e appena dopo sorpassa la casa da cui si vede l’interno di una cameretta con una culla rosa».

L’ospedale del quartiere è ormai un relitto: un groviglio di macerie, cavi e polvere, con la metà del soffitto mancante e parti dell’edificio completamente rase al suolo. È saturo di bambini con la solita infezione cutanea che torna con il caldo, l’«Aleppo bollire» come la chiamano qui.

Children play on a street in Old Aleppo, January 3, 2015. REUTERS/Nour Kelze
Bambini che giocano nella città vecchia (Reuters)

«Non ci sono più medicine, che prima arrivavano dalla Turchia, e queste piaghe diventano ogni giorno più grandi. Non posso fare niente» racconta Amira, giovane dottoressa con alle spalle anni di studi a Damasco. Non va via da Aleppo perché non vuole entrare nella schiera dei sette milioni di sfollati interni in Siria o nella squadra dei quasi quattro milioni di siriani rifugiati all’estero.

Quelli che restano di solito fanno pochi lavori umili: guidano macchine trasformate in taxi, gestiscono minuscoli internet caffè, o semplicemente vendono merce di contrabbando. Le organizzazioni non governative portano solo riso e olio. Tutto il resto entra per vie illegali. Un rivolo di aiuti si fa strada attraverso i confini labili della città.

Anche nel silenzio della notte, in quartieri interi consumati dal buio, la guerra va avanti. La gente ha iniziato a odiare tutti gli schieramenti. «Non vogliamo né le forze del regime né i ribelli. Vogliamo solo vivere in pace», ci dice Majd. Prima lavorava per il progetto rifiuti solidi del Programma Onu per lo sviluppo. «Avevo un po’ di soldi per comprare il pane per me e i miei vicini. Ora non ho più niente. Aleppo è un’ombra, un guscio. Interi quartieri sono stati svuotati di residenti e case».

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