«Il libro si lega alla mia esperienza di genitore, oltre a letture sull’autismo che si sono mescolate ai miei campi di studio, la città e la geografia culturale. Fa parte del mio lavoro analizzare come qualsiasi fenomeno abbia una sua manifestazione e relazione con lo spazio, ed è così nata una riflessione su come la città dia forma non solo all’esperienza, ma ai significati stessi dell’autismo». Professore di geografia politica ed economica all’Università di Torino, Alberto Vanolo ha pubblicato di recente il volume La città autistica (Einaudi, pp. 136, euro 12), che può essere letto nel suo portato esperienziale, di padre di Teo («credo di aver sviluppato negli anni una particolare risonanza con il modo di essere autistico del mio figlio più giovane»), e politicamente posizionato. L’autore ne discuterà oggi al Salone del libro (alle 14, Spazio UniTo, in dialogo con Giulia Gazzo e Alice Scavarda).

Perché occorrerebbe parlare di autismi al plurale e quali sono i rischi di una logica della misurazione?
Il plurale evidenzia come esistano condizioni assai differenti: non tutte le persone autistiche hanno comportamenti rituali o evitano il contatto fisico e le esigenze delle persone autistiche disabili sono diverse rispetto ad altre. È importante riconoscere la varietà dei modi di essere, al di là di diagnosi e categorie, senza cadere nel tranello di una visione gerarchica di condizioni e difficoltà. Allo stesso tempo, è politicamente importante mantenere coeso il gruppo, evitando distinzioni e sottocategorie che possono indebolirne le rivendicazioni. In questo senso, più che di autismo come categoria medica, il libro tratta in senso più ampio di neurodivergenza.

Neurodivergenza e neurodiversità sono termini complessi e molto presenti nel suo libro.
Il termine neurodiversità si riferisce alla varietà delle strutture neurologiche. La maggior parte delle persone ha uno sviluppo simile, detto neurotipico, ma molte altre sono atipiche, cioè neurodivergenti. Da un punto di vista medico, la neurodivergenza include varie diagnosi – autismo, Adhd, dislessia e altro – ma, da uno politico e culturale, la categoria è fluida e comprende chiunque viva una condizione di marginalità legata alle proprie caratteristiche. L’obiettivo è combattere lo stigma che caratterizza le narrazioni più comuni. Occorre riconoscere che le menti e i corpi differenti non sono «meno». Non si tratta di negare difficoltà o sofferenze che possono caratterizzare diagnosi o condizioni. Si tratta di un percorso critico rispetto a una visione gerarchica, performativa, abilista e normalizzante di corpi, mente e salute, tutte questioni legate alla vita urbana.

Le conoscenze situate da cui avvia il suo ragionamento attengono a diversi piani: quello esperienziale (di padre) e di studioso (di geografia urbana e culturale). Su quest’ultimo punto, alcuni dei suoi riferimenti teorici sono espliciti: Michel Foucault e Guy Debord. Su quest’ultimo, vi è la scoperta delle passeggiate psicogeografiche con suo figlio Teo.
Nel libro ho inserito cose che amo del mio mondo. La psicogeografia è la pratica del perdersi nello spazio per aprirsi a esplorazioni che investono, al di là dello spazio fisico, quello sociale, politico e immaginifico. Anche se la sua teorizzazione risale alla Parigi degli anni Cinquanta, la mia fascinazione si collega agli anni Novanta e a movimenti italiani come Luther Blissett. Amo la dimensione ironica e ambivalente della psicogeografia, a cavallo fra rigore metodologico e giocosità, fra la complessità delle sue riflessioni e la sua immediatezza come pratica. Mi piace pensare che un atto apparentemente semplice come camminare chiami in causa idee e concetti politici potenti, come la riappropriazione dello spazio pubblico, la politica della differenza e l’apertura di quelli che, nel gergo geografico, chiamiamo «terzi spazi», quelli di sovversione delle logiche dicotomiche come il confine fra «strano» e «normale» o fra «appropriato» e «indecoroso».

Lei scrive che «i movimenti politici e sociali hanno una forte matrice urbana». Per questa ragione, la visibilità è un aspetto importante. Nel caso dell’autismo ci sono tratti più disomogenei riguardo le lotte e i bisogni.
La visibilità è una categoria importante: un movimento o una rivendicazione acquistano dimensione politica quando hanno un nome e sono identificabili. Allo stesso tempo, non va romanticizzata: per molti soggetti l’invisibilità può essere una strategia e, non a caso, le persone autistiche, se sono in grado di farlo, mettono spesso in campo faticose operazioni di masking per dissimulare le proprie caratteristiche in una società che marginalizza corpi, menti e comportamenti atipici. Nella mia esperienza – chiaramente intima, imperfetta e per nulla eroica – ho imparato che per riappropriarmi della città dovevo superare sentimenti come la vergogna, il senso di inadeguatezza, la violenza del pietismo e il desiderio di dissimulare o normalizzare la «stranezza». Quando sono riuscito a compiere quel passo, la città si è trasformata in un laboratorio di possibilità da vivere ed esplorare. Penso che una società migliore non dovrebbe chiedere ai singoli individui di trovare le risorse per superare queste barriere, perché non sempre sono a disposizione. Penso sia ora di ripensare radicalmente categorie e modi di vivere la città.

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Scheda. Disability Studies, che accade in Italia
Tra chi in Italia da anni si occupa di Disability Studies c’è Enrico Valtellina: la sua attenzione alle disabilità relazionali e agli autismi, fornisce oggi un riferimento cruciale. Suo è il libro «Tipi umani particolarmente strani. La sindrome di Asperger come oggetto culturale» (Mimesis 2016) ma anche l’impegno come curatore, tra cui il primo volume di «L’autismo oltre lo sguardo medico. I Critical Autism Studies» (Erickson 2020) e di traduttore, tra gli altri di «Le politiche della disabilitazione» di Michael Olivier (ombre corte 2023). Già nel 2006 pubblicava con Roberto Medeghini «Quale disabilità?» (Franco Angeli 2016).