Il 2024 era appena iniziato quando il segretario generale del Consiglio supremo delle antichità egiziane presso il Ministero del turismo e delle antichità ha annunciato di voler completare il rivestimento della piramide di Menkaure, faraone della IV dinastia (2532-2504 a.C.), meglio noto in Occidente con il nome ellenizzato di Mykerinos (Micerino). Il progetto, che prevedeva di ricollocare nella (presunta) posizione originaria i blocchi di granito rosso sparsi ai piedi del monumento, aveva però incontrato fin da subito l’ostilità degli studiosi egiziani, persuasi che qualsiasi tentativo di inglobare nell’intelaiatura della piramide i blocchi non rifiniti avrebbe rappresentato una palese interferenza con la maestria degli antichi egizi, pregiudicando l’integrità e l’autenticità del manufatto. Il 15 febbraio, un comitato internazionale di esperti ha rigettato quello che era stato pomposamente definito «il progetto del secolo», avvalorando il rischio che la foderatura delle pietre calcaree possa obliterare le tracce delle rampe in mattoni di fango riportate alla luce dagli archeologi sul lato occidentale della piramide e utilizzate per erigere la costruzione.

Al di là della strategia sensazionalistica che caratterizza la promozione del sito archeologico di Giza (uno dei più visitati al mondo), ultimamente ancor più enfatizzata dal governo egiziano nel tentativo di recuperare i grandi numeri del turismo precedenti ai problemi securitari del paese, questa notizia suscita un interrogativo sempiterno, allo stesso tempo di natura «materiale» e filosofico-esistenziale: che significato hanno le rovine nelle differenti società? Sembra scontato affermare che, malgrado le argomentazioni di carattere scientifico e tecnico avanzate dagli specialisti, la scelta di preservare la forma superstite della piramide di Micerino corrisponda nell’immaginario comune alla «sacralizzazione» di un monumento emblematico della Storia, il quale – nonostante le spoliazioni e i restauri avvicendatisi da un’epoca all’altra – deve restare saldamente ancorato all’idea romantica e quasi magica che non solo l’archeologia ma anche la letteratura, le arti e la cultura popolare gli hanno conferito. D’altro canto non si può negare che l’anelito a colmare quell’inesorabile distanza tra la perfezione primigenia di un’architettura e le sue vestigia sia altrettanto vivo. Ma la conoscenza del passato che è possibile restituire con lo studio e l’interpretazione dei resti materiali non diviene forse un abuso nel caso di ricostruzioni – talvolta ideologiche, talaltra sottomesse a beceri interessi economici – che, in varie parti del Mediterraneo, trasformano i luoghi antichi in ingannevoli visioni di marmo o cemento, decretando paradossalmente la distruzione della loro essenza?

Un libro uscito in Italia alla fine del 2023 può aiutare, se non a risolvere, perlomeno ad affrontare con più consapevolezza problematiche come quelle che l’attualità di continuo ci sottopone. Si tratta di Storia universale delle rovine Dalle origini all’età dei Lumi di Alain Schnapp (Einaudi «Grandi Opere», traduzione di Anna Delfina Arcostanzo e Valentina Palombi, con 156 illustrazioni nel testo, pp. IX-925, euro 120,00). Tre anni fa, in occasione della pubblicazione del saggio in Francia per la casa editrice Seuil, Schnapp – archeologo e professore emerito dell’Università Paris I Panthéon Sorbonne nonché fondatore, nel 2011, dell’Institut national d’Histoire de l’Art (Inha) – aveva concesso ad «Alias-D» una lunga intervista (https://ilmanifesto.it/le-domande-delle-rovine) per approfondire il senso della sua ricerca, sviluppatasi durante quindici anni e volta a comprendere il legame tra memoria collettiva, oggetti e monumenti del passato. A quest’opera magistrale, che si colloca in una dimensione filosofica, antropologica e letteraria basata sul metodo comparatistico elaborato da Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet negli anni sessanta del secolo scorso, torniamo ora per una riflessione solo apparentemente più circostanziata.

Nel capitolo V, intitolato Le rovine dell’essere, l’autore dedica ampio spazio ai monumenti «megalomani» dell’Egitto – piramidi, necropoli di pietra, resti di città faraoniche – che hanno colpito visitatori di ogni tempo, da Solone a Napoleone passando per il califfo al-Ma’mun. Ma è attraverso la prospettiva degli eruditi arabi che Schnapp ci trasporta nel paese del Nilo con un approccio forse disorientante per coloro che ritengono il riconoscimento del valore ontologico delle rovine un’«esclusiva» della civiltà occidentale. Anche i lettori meno influenzati dalla violenza iconoclastica di certe correnti islamiste saranno sorpresi di apprendere che – sebbene le piramidi e i monumenti dell’Egitto siano stati vittime di azioni vandaliche mosse dall’odio per il paganesimo e dalla volontà di affermazione della religione del Profeta – la spinta a proteggere le testimonianze del passato da parte dell’Islam è stata altrettanto vigorosa.

Al-Baghdadi, medico e studioso vissuto al Cairo nel XII secolo, fu tra i primi a considerare le piramidi come oggetti meritevoli di ammirazione, non solo per le loro proporzioni ma anche perché ricettacoli di conoscenza e «propulsori» di una saggezza capace di indurre a riflessioni metafisiche. Concentrandosi sulle tecniche di costruzione e sui savoir-faire dei costruttori, al-Baghdadi esalta l’inarrivabile singolarità delle piramidi senza tuttavia piegarsi alla «tradizione delle meraviglie». Convinto sostenitore dell’intelligibilità delle rovine, egli si avventurò all’interno della piramide di Cheope, uscendo però malridotto da quella spedizione. La sua descrizione di Menfi, un vero e proprio appello alla consapevolezza della perdita provocata dalla devastazione dei monumenti, dimostra che l’interesse delle menti più illuminate dell’Islam medievale per lo «spettacolo» delle rovine era pari all’entusiasmo di Petrarca per le vestigia dell’antica Roma.

Nessuno in Occidente, tra XII e XIII secolo, difese così ardentemente i monumenti dell’antichità, stabilendo una connessione tra la coscienza delle rovine come «estetica del ricordo» e una materialità che resiste. Del ruolo politico giocato dalle vestigia era inoltre consapevole il filologo al-Idris (da non confondere con il più noto geografo) che, nel raccontare le devastazioni perpetrate a Luxor e Heliopolis, manifesta un’empatia che nel mondo islamico non era mai stata espressa con tanto ardore. Egli non commisera coloro che hanno costruito e abitato queste rovine ma, sulla scorta di filosofi quali Platone, piange la perdita di senso che segue la distruzione e lo smantellamento dei monumenti.

Nel condividere l’immenso e prezioso bagaglio delle sue acquisizioni documentarie, Schnapp sottolinea dunque come il rapporto con le rovine non sia solo un «atteggiamento morale di rispetto per il passato e nemmeno una postura malinconica, ma l’affermazione di una volontà determinata e sicura di sé di proteggere un potenziale di conoscenze e di saperi minacciato da qualcosa di molto più terribile della scomparsa: l’oblio». Se al-Idrisi aveva già intuito che la conservazione dei monumenti è una necessità che trascende tutte le differenze culturali per preservare la catena di trasmissione, i versi di un poeta preislamico scuotono da lontano le sfide dell’oggi: «… fui sorpreso dal gemito / delle pietre sotto i colpi dei picconi. / Da una mano crudele furono strappate come se ci fosse un odio implacabile tra le due parti. / Distruttore, possa il tuo braccio essere paralizzato. Lasciale, dunque, rimanere per coloro che sanno osservare, che hanno occhi e vogliono fare domande».