Visioni

Alain Parroni: «Volevo mostrare la periferia del linguaggio e i sentimenti della provincia»

Alain Parroni: «Volevo mostrare la periferia del linguaggio e i sentimenti della provincia»Una scena da «Una sterminata domenica»

Venezia 80 Intervista con il regista di «Una sterminata domenica», presentato in Orizzonti e dal 14 settembre in sala

Pubblicato circa un anno faEdizione del 2 settembre 2023
Alain Parroni

Le giornate infinite, la noia, il desiderio di spaccare tutto in quei posti che sembrano dimenticati da Dio – nonostante, quest’anno, i film che raccontano la periferia romana non manchino alla Mostra, in una particolare dinamica tra marginalità e centro. Quello di Alain Parroni, al suo primo lungometraggio con Una sterminata domenica – presentato in Orizzonti e nelle sale dal 14 settembre – è però un racconto che sgorga dalle tracce di mille esperienze sovrapposte, a cui il regista classe 1992 non ha applicato filtri ma anzi, emerge il tentativo di restituirne l’aria, le sensazioni senza nome, anche attraverso una matura ricerca visuale. Alex, Brenda e Kevin vivono sul litorale romano, in provincia. Brenda scopre di essere incinta e il mondo cambia.

Ha portato sullo schermo la dinamica, i modi di parlare degli adolescenti di oggi che vivono ai margini di Roma. Ha avuto paura di non essere compreso da chi non conosce il contesto?

La mia ambizione era raccontare la realtà, ma non c’è dubbio che poi si finisce per esporre il proprio punto di vista su di essa. Ho provato però a mettermi in discussione perché mi rendo conto di essere stato così bombardato da tv, film, cartoni animati, per cui tutto proviene già da qualcos’altro. Non sento di poter salire in cattedra, piuttosto ho cavalcato queste influenze facendole in qualche modo diventare l’oggetto della narrazione. Ho fatto poi varie interviste a ragazzi molto giovani e ho costruito il film su quella che era la loro narrazione. La sceneggiatura era molto scarna perché credo che le cose accadano anche attraverso le immagini, i suoni, sperimentando con i linguaggi. Un triangolo amoroso tra adolescenti può essere raccontato in mille modi, sentivo di dover dare spazio più all’emotività dei personaggi che ai singoli eventi che accadono. È stata una costruzione abbastanza faticosa e anche dolorosa, ho operato come se stessi componendo un brano musicale, o dipingendo un quadro.

Per quanto lei sia giovane non è più un adolescente, con gli attori ha trovato facilmente un terreno comune?

Mi sono sentito come un fratello maggiore, non solo una guida ma anche qualcuno che ha vissuto molte delle cose che riguardano anche loro. E poi ciò che accomuna i tre ragazzi è che tutti sono cresciuti in provincia, anche se solo Federica Valentini viene da quella romana, Zackari Delmas e Enrico Bassetti vengono uno dai dintorni di Torino e l’altro dal Lago di Garda. Tutti loro si erano relazionati con la vita di provincia con i suoi pomeriggi vuoti.

La periferia romana è stata raccontata da grandissimi registi, da Pasolini a Citti fino a Caligari. Come si è rapportato a questi esempi?

Intanto mi sono chiesto se ci sia una differenza tra periferia e provincia. Credo che la prima subisca la città, in maniera anche fastidiosa, mentre la seconda è un po’ più lenta e abbandonata. Ciò che mi interessava era soprattutto mostrare una periferia che non è quella romana ma è quella del linguaggio, trovando l’universalità che unisce tutti questi luoghi. Chiaramente ho anche un po’ di timore nel confrontarmi con questo cinema ormai stratificato, qualcosa avrò anche saccheggiato, ma essendo cresciuto in quel contesto devo dire che alcuni film mi hanno dato fastidio: l’autore che viene dal centro per raccontare il degrado…ho cercato di uscire da questi stereotipi, non volevo puntare il dito verso un problema ma raccontare dei sentimenti.

Nel film c’è un interessante contrasto tra la religione «ufficiale», il vaticano, e le credenze popolari sulla magia e il malocchio.

L’attrice che interpreta la nonna di Brenda è mia nonna. È innanzitutto lei a vivere questa doppia dimensione. Nel film la religione rappresenta un po’ i genitori assenti, figure contraddittorie, con un’educazione che arriva per forza di cose essendo a Roma. La superstizione ha sempre un suo fascino, e poi proveniva da una figura prossima come mia nonna, sono delle suggestioni su come affrontare la vita. La religione, rimandando continuamente alla morte, può creare un senso di vuoto per una generazione più fragile: quasi un cortocircuito rispetto alla continua documentazione fotografica della propria vita che si fa con i cellulari, dalla colazione in poi. Credo che alla mia generazione manchi spesso un rapporto con la spiritualità intesa come ricerca interiore.

C’è una grande ricerca visuale, in particolar modo nell’ultima parte in cui avete sperimentato molto. Come ci avete lavorato?

Tutto il film si è avvalso di una figura assente nel cinema italiano, l’art director ovvero Flaminia Gentili. Nell’ultima parte abbiamo utilizzato delle tecniche pensate per i restauri che fanno parte del suo background, cercando di dare al film quella vibrazione che poteva avere la pellicola, o estremizzando alcuni difetti fino a una sorta di esplosione. Ognuno ci ha messo dentro il suo «disagio», dando vita a un confronto con se stesso e la propria generazione.

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