Tra meno di una settimana si terrà a Dubai la 28° Conferenza delle parti sul clima. Già il fatto che sarà presieduta da Sultan al-Jaber, direttore dell’Adnoc, l’ente petrolifero degli Emirati Arabi Uniti, la dice lunga sull’enorme operazione di greenwashing a cui toccherà assistere e sui risultati prossimi allo zero che la conferenza produrrà per affrontare la crisi climatica.

Del resto, mentre si moltiplicano gli allarmi astratti lanciati da governi, istituzioni e mass media, nessuna attenzione continua ad essere prestata ai dati concreti: ha raggiunto l’abnorme cifra di 7mila miliardi di dollari (13 milioni di dollari al minuto!) l’insieme dei sussidi elargiti nel 2022 al settore dei combustibili fossili.

Come ricorda lo studio “IMF Fossil Fuel Subsidies data: 2023 update” del Fondo Monetario Internazionale, si tratta del 7,1% del Pil globale e di quasi il doppio della cifra riservata all’istruzione (4,3%).
Il settore petrolifero ne ha beneficiato per il 50%, quello del carbone si è accaparrato il 30% e il restante 20% è andato al gas. Il 20% di questi sussidi sono diretti, ovvero finanziamenti degli Stati alle attività delle aziende di combustibili fossili, mentre ben l’80% sono sussidi indiretti, ovvero vantaggi finanziari e fiscali, costi sociali e ambientali che le aziende fossili non pagano e scaricano sulla società.

Con questi dati, si comprende meglio anche la scelta della sede della Cop28, perfetta per un plebiscitario e compiaciuto summit dei potenti, tanto quanto ostile alla presenza e presa di parola dei movimenti della società civile.

Come ricorda Human Rights Watch “per più di un decennio gli Emirati Arabi Uniti hanno preso di mira i diritti degli attivisti portando alla completa chiusura dello spazio civico, a severe restrizioni della libertà di espressione online e offline e alla criminalizzazione del dissenso pacifico”. Se su Cop28 non vale dunque la pena riporre alcuna aspettativa, occorre al contempo evitare che anche il governo italiano utilizzi l’evento per darsi una verniciatura di verde senza risultati concreti. Perché il governo può fare molto per uscire dalla passerella e schierarsi per le trasformazioni necessarie. In diverse direzioni.

La prima riguarda i sussidi ambientalmente dannosi che nel 2023 ammontano a ben 22 miliardi di euro, mentre manca una qualsiasi strategia per ridurli drasticamente fino ad azzerarli.
La seconda riguarda il poco invidiabile sesto posto che il nostro Paese occupa nella classifica dei finanziatori di combustibili fossili al mondo, per i quali, tra il 2019 e il 2021, abbiamo sborsato oltre 2.8 miliardi di dollari (a fronte di soli 112 milioni di dollari per le fonti rinnovabili).

La terza riguarda Cassa Depositi e Prestiti, per l’82,77% di proprietà del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Cassa Depositi e Prestiti possiede il 27% di ENI, il 26% di Italgas (società di distribuzione del gas), il 31% di Snam (il più grande operatore di trasporto del gas), il 30% di Terna (società di trasmissione dell’energia elettrica), il 12% di Saipem (società di costruzioni, braccio destro per le infrastrutture di Eni).

Servirebbe un piano strategico, partecipativamente costruito e socialmente controllato, che metta la finanza pubblica al servizio della conversione energetica della società verso obiettivi socialmente ed ecologicamente orientati.
Naturalmente, nulla di tutto questo è all’ordine del giorno delle azioni di governo e resta tema in gran parte ignorato anche dalle opposizioni istituzionali. Bene hanno fatto le realtà studentesche della Sapienza di Roma e dell’Università di Pisa a porre il problema a suon di occupazioni.