Responsabile per il coordinamento umanitario dell’Onu (Ocha) nei Territori palestinesi occupati, Andrea De Domenico da cinque mesi è impegnato a facilitare il passaggio e la distribuzione degli aiuti alla popolazione di Gaza travolta dall’offensiva di terra israeliana. «Quanto è accaduto al convoglio gestito da privati in via Rashid è esattamente ciò che le Nazioni unite temono e si impegnano ad evitare», ci ha detto ieri il funzionario dell’Onu dopo la strage di oltre cento civili nel nord di Gaza. «Se l’assistenza alla popolazione civile non crescerà e inoltre scatterà una operazione israeliana su Rafah, non saremo più sull’orlo nel baratro, ma cadremo nel baratro», avverte De Domenico.

All’estero non si ha ancora una piena consapevolezza della situazione drammatica a Gaza sotto attacco. E che nel nord della Striscia gli assalti dei civili ai camion sono la conseguenza della fame e della disperazione.

Il mondo deve sapere che dal 18 di febbraio le Nazioni unite non sono più riuscite ad effettuare alcuna operazione di assistenza al nord di Gaza. Ci sono circa 300mila palestinesi che da mesi affrontano attacchi militari con pochissimo aiuto umanitario. Le strade che abbiamo a disposizione sono soltanto un paio, una lungo la costa e la Salah Edin più all’interno. La gente, perciò, sa benissimo da dove giungono i camion. Le persone, disperate, senza più nulla, li vedono arrivare, corrono verso di loro per prendere ciò che possono, affrontando rischi incredibili. Ma non hanno scelta.

Cosa manca al nord di Gaza?

Tutto. Non c’è elettricità, non c’è acqua, non c’è cibo, non c’è assistenza sanitaria. Da mesi. La poca assistenza umanitaria che abbiamo assicurato è consistita in cibo e carburante per gli ospedali che poi sono stati progressivamente smantellati e messi in condizione di non poter più lavorare. La gente ha cominciato a mangiare cibo che normalmente viene dato agli animali. Un sacco di farina che prima della guerra costava 40 shekel (circa 10 euro) ora al nord costa 2000 shekel (circa 500 euro). È una situazione veramente disperata.

C’è acqua potabile al nord?

Mi sono chiesto tante volte come faccia la gente a sopravvivere con così poca acqua a disposizione. Di fatto non c’è acqua potabile. Non siamo mai riusciti a portare pezzi di ricambio, attrezzature e carburante alle stazioni di desalinizzazione e ai pozzi. Credo che lì i palestinesi stiano bevendo acqua mista, dolce e salata, quella dei pozzi e di mare. Non ho altra idea di come possano fare.

Molti dei feriti di quest’ultima strage sono stati portati all’ospedale Shifa di Gaza city o al Kamal Adwan nel nord. Come potranno essere curati se questi ospedali non sono più operativi.

Siamo stati contattati dal Kamal Adwan che è rimasto senza carburante. Lo Shifa che abbiamo potuto visitare l’ultima volta un mese fa, era ridotto a una sorta di avamposto per emergenze di base. L’esercito israeliano ha ridotto al minimo la nostra capacità di rifornire gli ospedali nel nord di Gaza. Quindi i feriti (di ieri) non hanno trovato l’assistenza sanitaria dovuta, soprattutto quelli con ferite più complesse non potranno ricevere le cure di cui necessitano. Domani (oggi) speriamo di andare allo Shifa dove porteremo medicinali e carburante ma la nostra missione fino a questo momento non ha ancora ricevuto l’approvazione dei militari israeliani.

Si legge che a febbraio sono entrati a Gaza meno aiuti umanitari rispetto a gennaio. Gli israeliani dicono che la colpa è delle Nazioni unite e non delle loro misure restrittive.

Accuse che respingiamo con forza. Abbiamo detto e ridetto mille volte agli israeliani che non è solo una questione di camion che entrano a Gaza e che non basta far transitare gli autocarri. Occorre creare le condizioni per poter operare, a cominciare dalla sicurezza. Nelle ultime settimane abbiamo subito attacchi ai camion e alle nostre basi. Dobbiamo avere la possibilità di poterci muovere in condizioni di sicurezza. In passato gli israeliani hanno colpito convogli umanitari e non hanno facilitato il transito degli autocarri al mattino presto come avevamo chiesto. Ai posti di blocco i soldati hanno maltrattato e umiliato il personale delle Nazioni unite, separando lo staff locale da quello internazionale, ritardando le nostre operazioni. È tutta una catena di eventi che deve mettersi in moto. Gli israeliani lo sanno bene, ne parliamo ogni giorno, ma non hanno fatto i passi necessari per facilitare il nostro compito.