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Al Jamaica con gli artisti per una Milano da reinventare

Al Jamaica con gli artisti per una Milano da reinventare

Bar Negli anni ’60 passare dal Jamaica significa vedere personaggi incredibili impegnati in interminabili partite a carte o in discussioni sui massimi sistemi e spesso sull’arte. Un crocevia di libertà, una fucina di idee, ma anche di cibo...

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 24 agosto 2024

Milano. Nel 1911 Carlo Mainini rileva un locale di via Brera 32, e lo chiama fiaschetteria Ponte di Brera, proprio accanto all’Accademia. Si dice che ci fosse già il telefono (pubblico) e la macchina per il caffè espresso. Il posto è frequentato da abitanti della zona. Passano gli anni, di lì passa anche Benito Mussolini, direttore del Popolo d’Italia che ha sede nella vicina via Lovanio, ma pare non si fidi dei telefoni della redazione, quindi usa quello anonimo della fiaschetteria.

Ma non è un bel ricordo perché nel ’22 Mussolini sparisce senza saldare il conto, per ricomparire a Roma con altri incarichi. E il rapporto con il regime già non idilliaco per quel conto inevaso si guasta ulteriormente quando i fascisti distruggono l’insegna «Fiaschetteria de mec» ritenendola parola straniera (in realtà si riferiva alla milanesissima «michetta»). Nel 1928, Carlo si sposa con Adele Rossini, detta Lina, sarà lei, Mamma Lina, l’anima del locale col suo sempiterno «scossarin», supportata negli anni del dopoguerra dal figlio Elio. La svolta avviene prima nel nome, grazie a un’idea del musicologo Giulio Confalonieri che ispirandosi al film di Hitchcock La taverna della Giamaica suggerisce quel nome esotico come contraltare al grigiore milanese. Bar Giamaica quindi che col passare degli anni diventa il bar Jamaica. E dopo il nome il grande salto. Elio Mainini nel 1948 si inventa il premio Post Guernica, coadiuvato dal «consorzio dei cervelli» composto da Dova, Crippa e Peverelli.

Nonostante alcuni storcano il naso di fronte alla proposta innovativa, altri in poco tempo trasformano il bar Jamaica in caffè degli artisti. Bisogna dire che all’epoca il caffè è un luogo di scambio, di partite a carte, di socializzazione e di cicchetti. Così, sotto l’occhio vigile e complice di mamma Lina, che segna sul suo calepino i conti da pagare dei tanti squattrinati che lì approdano (ma non vuole quadri perché le sembrerebbe di approfittare dei momenti di crisi economica di qualche pittore), quel posto diventa il crocevia da cui passa un esercito di talenti straordinari negli ambiti creativi diversi. Tra i primi frequentatori ci sono gli artisti Piero Manzoni, Bruno Cassinari, Lucio Fontana, gli scrittori Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Nanni Balestrini e Luciano Bianciardi che in La vita agra ribattezza il locale con il nome di bar Antille. E nel film che Lizzani ne ha tratto si vede Enzo Jannacci che canta all’interno del Jamaica, dove in un angolo c’è anche un pianoforte a disposizione di chi se la sente. Anche Guido Aristarco è della partita come i designer Achille Castiglioni e Ettore Sottsass, poi Elio Fiorucci e Pino Rabolini (Pomellato), il genio poliedrico di Emilio Tadini, quello fuori norma di Allen Ginsberg che quando è a Milano lo frequenta assiduamente, e ancora Dario Fo, Paolo Poli, Mariangela Melato, Giorgio Gaber, Renato Sellani (che usa il piano del Jamaica) sino alla magnifica ondata di fotografi Ugo Mulas, Alfa Castaldi, Mario Dondero, Uliano Lucas e molti altri che hanno immortalato epoche, persone e cose, lasciando un segno indelebile.

Negli anni ’60 passare dal Jamaica significa vedere personaggi incredibili impegnati in interminabili partite a carte o in discussioni sui massimi sistemi e spesso sull’arte. Un crocevia di libertà, una fucina di idee, ma anche di cibo perché Elio con i suggerimenti di amici, tra cui Gualtiero Marchesi, oltre ai cocktail sa proporre gustosi stuzzichini da consumare anche nei tavolini all’aperto.

Per chiudere va citato Emilio Tadini che ha scritto «Erano tanti, i fotografi, al Jamaica. Come i pittori, gli scrittori, i cineasti, i giornalisti. O, per meglio dire, erano tanti i giovani che si erano messi in testa di fare uno di questi mestieri – e che sarebbero riusciti a farlo, e, in molti casi, anche benissimo. Per chiunque sia nato e cresciuto al Jamaica le loro fotografie più belle restano quelle là, con quattro o cinque giovani molto giovani seduti sulle poltroncine di ferro del ’giardino’, o dentro, contro lo sfondo di piastrelle bianche, in vaghe pose sognanti e incomprensibili, davanti a un bicchiere di bianco…».

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