Al cuore della macchina infernale c’è sempre il Bardo
Hollywood Aspettando la notte degli Oscar, il saggio di Arturo Cattaneo e Gianluca Fumagalli fa luce sull’influenza di Shakespeare nel cinema americano. La sudditanza che va ben oltre gli adattamenti, il ruolo dei produttori
Hollywood Aspettando la notte degli Oscar, il saggio di Arturo Cattaneo e Gianluca Fumagalli fa luce sull’influenza di Shakespeare nel cinema americano. La sudditanza che va ben oltre gli adattamenti, il ruolo dei produttori
Se il cinema, soprattutto quello hollywoodiano, è una continua produzione – spesso estenuante – di nuovi immaginari più o meno efficaci, ma sempre impalpabili, il teatro di questi immaginari ne è il corpo vivo e William Shakespeare il suo più grande e influente officiante. Il cinema americano da sempre ricerca e produce di sé un’identità forte e ben definita dentro alla quale camuffare il proprio passato. Un mischiamento che è una vera e propria messa in scena, perché Hollywood è sempre Hollywood dietro come davanti alla cinepresa, e ogni film è un meta film: motivo per cui al centro del cinema di Hollywood non vi sono i registi o gli sceneggiatori (come la lunga e legittima protesta ha dimostrato), ma i produttori.
NON È SOLO una questione economica anche se non è certo un fatto secondario, ma è prima ancora una questione di mescolare gli ingredienti perché ogni film oltre a raccontare la sua storia, rappresenta la storia di Hollywood. E si muove da qui il denso e colto saggio di Arturo Cattaneo e Gianluca Fumagalli, Shakespeare in Hollywood (Einaudi), ovvero dal trionfo agli Oscar di Shakespeare in love di John Madden prodotto dalla Miramax allora ancora condotta da Robert Weinstein. Il film di Madden rappresenta il coronamento di un viaggio che nasce agli albori di Hollywood quando il Bardo diviene forse il più rilevante sceneggiatore cinematografico di sempre. Qui non si tratta solo di saccheggiare l’opera di un classico, ma agire una mutazione che intrecci l’aspetto creativo con quello identitario. E quando Shakespeare in love trionfa agli Oscar lo fa battendo sorprendentemente quello che fino ad allora rappresentava appieno l’identità americana più di ogni altra cosa: un film di guerra. Meglio ancora è un film di guerra di Steven Spielberg, ovvero Salvate il soldato Ryan. Siamo nel 1998 alle soglie del ventunesimo secolo e William Shakespeare ottiene così pienamente i natali a Los Angeles.
PER ARRIVARE a questo è stato centrale il ruolo di Bob Weinstein che con la sua ben nota aggressività e spregiudicatezza è riuscito a convincere la maggioranza dei membri dell’Academy. E possiamo solo immaginare la sua volgare capacità persuasiva. Weinstein poi finito nella polvere o meglio agli arresti dove verrà condannato per violenza sessuale e stupro nel febbraio del 2020, rappresenta alla perfezione quella capacità bulimica, violenta e ossessiva di quel mondo che trasforma ogni forma di inclusione in razzia trasfigurante. Tuttavia come individuano gli autori di Shakespeare in Hollywood, il Bardo viene solo apparentemente divorato dalla necessità di racconto del cinema perché in realtà arriva a pervaderne i meccanismi narrativi rivelando, nel tempo breve dell’epica hollywoodiana, la sua straordinaria e irriducibile forza creativa. L.A. dove tutto viene incluso per essere rimasticato e identificato come prodotto originale di una città e del suo sogno che deve raggiungere tutto il mondo, si ritrova così parte in commedia di un autore realmente mefistofelico ed eterno. I grandi burattinai vengono ridotti a ridicole comparse di un gioco più grande di loro, perché interpretare Shakespeare significa non appropriarsene, ma cedere al suo intrigo e alla sua irresistibile seduzione.
IL SAGGIO di Cattaneo e Fumagalli diviene così anche un prezioso catalogo delle traiettorie interpretative compiute al cinema: da Lubitsh a Marlon Brando da Brodway a Bambi di Walt Disney. La grandezza di Hollywood chiaramente è evidente, al punto che ancora oggi è il cuore di un movimento straordinario.
Una macchina infernale capace comunque di produrre meraviglia, ma la presenza di Shakespeare assume sempre più i toni di una dipendenza da cui non potrà mai divincolarsi. Hollywood rende così plastica la contemporaneità di Shakespeare che va ben oltre le produzioni che hanno rielaborato i suoi lavori o ne hanno preso spunto, ma arriva fin dentro i singoli personaggi, nei loro caratteri e nei loro movimenti emotivi. Una vera e propria sudditanza che non ha bisogno di ulteriori evidenze.
RILEGGENDO criticamente il cinema americano attraverso il teatro di Shakespeare, come proposto in Shakespeare in Hollywood, è possibile recuperare il senso di molte delle opere di una cinematografia spesso fraintesa o magari sottovalutata perché ricondotta ad un immaginario americano che tende ad appiattire una complessità che invece è fortemente insita nelle sceneggiature come nel lavoro attoriale e di regia. Un gusto per il racconto, magari ingenuo, unito ad una voracità di spettacolo e a un desiderio (anche questo abbastanza ingenuo) di impattare sul pubblico globale rivelano certamente un carattere egemonico, ma anche una necessità obbligata, quella di rivolgersi a William Shakespeare. Godiamoci lo spettacolo della notte degli Oscar, ma non senza considerare che il vincitore sarà molto probabilmente sempre lui, il Cigno dell’Avon, già accreditato di ben 30 premi Oscar.
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