Nel 2020, in piena pandemia, Putin ha fatto approvare dal Parlamento una riforma costituzionale (ratificata poi da un referendum plebiscitario) che non pone limiti al suo mandato, che inserisce nel perimetro costituzionale i dettami della chiesa ortodossa (ad esempio l’esplicitazione del matrimonio come unione tra uomo e donna) e che sancisce l’attenzione al welfare e alla giustizia sociale.

Secondo molti osservatori si tratta dell’apice di un percorso di Putin durante il quale ha attinto al conservatorismo russo per condensarlo in una sorta di nuova ideologia putiniana.

DUE SONO I PUNTI che l’attuale leader avrebbe recuperato dal variegato pensiero conservatore russo: il cambiamento «organico» e «l’unicità» della Russia.

Nel momento di concepire una cornice autoritaria capace di garantire la «stabilità» il Cremlino non poteva che guardare alla Cina: la riforma costituzionale allarga e non di poco il ruolo del Consiglio di Stato che, come osservato dall’Ispi, diventa un organo col potere di indicare «la direzione della politica interna e di quella estera e le priorità socio-economiche» del paese (come in Cina), prevede la nomina diretta dei governatori locali e quindi esentati dalla competizione elettorale (come in Cina) e specifica il concetto di sovranità per costituzione: l’integrità territoriale diventa non negoziabile, un modo per ribadire – ad esempio – che Mosca non intendeva restituire all’Ucraina la Crimea, annessa di fatto nel 2014, un monito che oggi appare piuttosto chiaro, come la linea rossa tracciata nel 2008 con la guerra in Georgia: la Nato deve rimanere al di fuori dei confini dell’ex Unione sovietica era il messaggio.

Secondo l’ex ambasciatore Luca Gori, autore di Russia Eterna (Luiss University Press), all’epoca «Non vi fu, e probabilmente non poteva esserci, la disponibilità a capire il punto di vista di Mosca, superando le categorie occidentali. A investigare la sua percezione della minaccia, il senso della storia russa, dello spazio e dei confini, del dominio sui vicini come misura di autodifesa».

A questo proposito si ricorda «il paradosso» di Caterina la Grande: fu lei a riportare la Crimea alla Russia nel 1783 sostenendo che «l’unico modo che ho per difendere i miei confini è allargarli».

Caterina la Grande, 1783
L’unico modo che ho per difendere i confini della Russia è allargarli.

SECONDO QUESTA CHIAVE di lettura, attaccando l’Ucraina, scrive Gori «Putin difendeva la Russia. Del resto “I russi – ha ammonito il conservatore Egor Cholmogorov – ‘difendono’ sempre, anche quando sembra che attacchino”. In Crimea, Mosca difendeva i suoi interessi nazionali, certo, ma anche l’autonomia della sua civiltà che – a torto o a ragione – percepiva minacciata».

Stabilità, cambiamento organico e civiltà sono concetti che ritroviamo ampiamente nella «visione del mondo» di Xi Jinping che, una volta giunto al potere, ha tentato di puntellare un nuovo «pieno» ideologico attraverso il «sogno cinese».

In questo senso – al netto delle mastodontiche differenze economiche, sociali e storiche di Russia e Cina – abbiamo una concordanza straordinaria tra i due leader: entrambi hanno frantumato i limiti costituzionali che imponevano una durata certa del loro potere, entrambi hanno disegnato una prospettiva paternalistica che guarda a dio e ai poveri in Russia, all’ordine e alle fasce più deboli in Cina: per giustificare il proprio potere il leader, lo zar o l’imperatore, deve assicurarsi che la popolazione non sia scontenta.

Analogamente Putin e Xi Jinping sono accomunati da una visione metastorica: non importa chi fosse al potere nel momento di massimo splendore, di grande coraggio o patriottismo ora della Cina, ora della Russia; quello che va recuperato e che unisce il popolo cinese da una parte e il popolo russo dall’altro è l’idea del «paese eterno».

PUTIN HA COSÌ RIVALUTATO momenti storici, imperiali e sovietici, la guerra contro i nazisti o la grande battaglia di Sebastopoli, Xi Jinping ha unito l’epica rivoluzionario di Mao alla grande tradizione confuciana cinese. In entrambi i casi c’è la ricerca di un canone capace di tenere unito il paese e funzionale al mantenimento del potere, ora di Putin, ora del Partito comunista.

La precauzione è d’obbligo nel momento in cui si appronta una ricerca di assonanze, ma questo approccio di Putin e Xi a concepirsi come gli architetti del ritorno al centro del mondo di civiltà che si ritengono uniche e altre è da registrare e ci aiuta a capire anche l’’ttuale postura anti occidentale dei due paesi a fronte dell’invasione russa in Ucraina: entrambi ritengono sia giunto il momento di essere considerati alla pari dei paesi occidentali e non più trattati come «junior partner». Il richiamo a un «mondo multipolare giusto» è esattamente il risultato di questa richiesta.

QUESTO ATTEGGIAMENTO – inoltre – indaga la nostra percezione di come funziona il mondo: l’ordine liberale post guerra fredda aveva fatto suo il credo secondo il quale lo sviluppo economico, il benessere, l’apertura di mercati avrebbe portato inesorabilmente a forme democratiche. La storia ci racconta che per quanto sia un auspicio condivisibile (specie sperare nella transizioni di alcuni paesi in democrazie più vere e meno opache di molte catalogate come tali oggi) non è una realtà.

Questa ovvietà non si è mai verificata. Nel 2010 Steven Levitsky e Lucan A. Way in Competitive authoritarianism (Cambridge University press), diventato un classico della letteratura sul tema, avevano dimostrato che in realtà, dopo la fine della guerra fredda, ben pochi sono stati i paesi a compiere questa transizione auspicata. E che la maggior parte dei paesi o non aveva cambiato la propria postura autoritaria o ne aveva appena sfumato i contorni.

La realtà che ci siamo trovati di fronte e che più debilita il punto di partenza occidentale è proprio la Cina, un paese che ha scelto un modello di sviluppo autonomo, distante dai consigli degli economisti americani che chiedevano terapie d’urto e che ha tenuto sempre il partito comunista al centro di questo processo aumentando o diminuendo la presa autoritaria sulla società.

UN’AUTOCRAZIA che ha però creato ricchezza per la propria popolazione e per l’economia mondiale. La Russia, in questo senso, non ha la forza economica della Cina (per quanto il ricatto del gas con l’Unione europea stia dimostrando oggi il suo «peso») ma al contrario di Pechino ha esercitato una politica di potenza a livello internazionale indiscutibile.

Ci sono evidenti differenze tra Cina e Russia: storicamente la Russia si è difesa «allargandosi» come registrato da Caterina la Grande, risultato di una percezione di assedio e accerchiamento che non è una novità dell’era putiniana. Forse per questo motivo la Russia – nonostante lo storico giogo mongolo – non ha mai subito l’onta di ampie parti del suo territorio finite sotto controllo straniero.

Al contrario la Cina che in epoca imperiale basava la propria politica di potenza sulla presunzione di essere la civiltà più avanzata a fronte del resto del mondo, i «barbari», ha subito feroci occupazioni del territorio: le più recenti a metà del 1800 con le guerre dell’oppio che hanno forgiato l’attuale spirito di rivalsa contro l’Occidente, altro elemento che accomuna Pechino e Mosca. Se poi – come sostengono esperti – la visione russa è apocalittica e teleologica allo stesso tempo, la percezione cinese è più attendista, più compromissoria.

QUESTO ATTEGGIAMENTO è più che mai evidente oggi: Putin esercita una politica aggressiva e perfino militare per imporre all’attenzione mondiale le proprie esigenze; la Cina si muove in modo più oscuro e mellifluo, usando la tenaglia economica per portare gli equilibri internazionali dalla propria parte. Putin, nonostante concepisca la Russia come una potenza euroasiatica, ha più volte specificato di inserirla all’interno del contesto culturale occidentale (quello originario, cristiano, naturalmente, non certo quello liberale da cui Mosca si è tenuta ben distante).

Per questo per Putin la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi (alla Clausewitz). Xi è cinese. È Sun Tsu a indicare la strada e la guerra migliore è quella che si vince senza combattere.

«DAL LATO OCCIDENTALE delle cose, canta Ivano Fossati, mi incanto e mi disincanto»: è esattamente la sensazione che si percepisce nel momento in cui si stringe il campo su due potenze «altre» rispetto ai nostri valori e alla nostra impostazione culturale. Si tratta di guardare le cose, il mondo, il suo procedere, da luoghi mentali diversi, di percepire ogni lieve movimento della Storia in modo diverso.

E da un lato realizziamo e annusiamo un mistero appoggiato a secoli di storia, grandi imprese e grandi momenti di affermazione storica da parte di Russia e Cina, dall’altro non possiamo che essere disincantati rispetto a una visione della dialettica politica che finisce per considerare come ovvio e anzi come strumento migliore per gestire il paese un modello autoritario le cui origini sono trapiantate, talvolta artificialmente, nella storia del paese, altre volte impiantate a causa di contingenze esterne.

Rimane la sensazione che Russia e Cina condividano l’autopercezione di essere motori della propria storia e come tali di tutta la Storia. Allo stesso momento è difficile trovare un compromesso culturale, ad esempio, tra una invasione e quindi una chiara violazione del diritto internazionale e la percezione di un’azione invece «difensiva».

Che ci piaccia o meno – e a prescindere da come terminerà l’avventura criminale di Putin in Ucraina – Russia e Cina non hanno intenzione di rinunciare alla missione che i loro leader al momento sentono di incarnare: riportare i due paesi al centro del mondo.