L’uccisione di Vivian Silver ha lasciato nel dolore due comunità, due mondi di attivismo politico che negli anni si sono intrecciati e hanno condiviso percorsi: israeliani e palestinesi da due giorni tributano il loro affetto alla 74enne uccisa il 7 ottobre nell’attacco di Hamas nel kibbutz di Be’eri. Un tributo misto a incredulità, cinque settimane dopo è ancora lo choc a prevalere.

Si credeva che Silver fosse tra gli ostaggi a Gaza, ma il suo corpo è stato identificato tra le vittime. Attivista pacifista, impegnata da decenni al fianco dei Territori occupati palestinesi ma anche dei palestinesi beduini del deserto del Naqab, è stata a lungo nel board di B’Tselem, la più nota organizzazione per i diritti umani israeliana.

DOPO L’OFFENSIVA militare di Tel Aviv contro Gaza del 2014, Margine Protettivo, fondò la Women Wage Peace, gruppo pacifista di sole donne. La sua è una delle tante storie che in queste settimane emergono dai bilanci, elenco asettico di numeri che segnano la quotidianità di due choc collettivi che non si incontrano. Tra questi anche i 240 ostaggi nelle mani di Hamas, per la società israeliana elemento centrale di quella che ritengono debba essere la reazione governativa.

Martedì il premier Netanyahu ha rilasciato nuove fumose dichiarazioni («Se e quando ci saranno novità, le comunicherò») che paiono fatte apposta per esacerbare gli animi. Anche per questo molti dei familiari degli ostaggi, zoccolo duro dell’attuale protesta contro il gabinetto di guerra, ha deciso di mettersi in marcia da Tel Aviv a Gerusalemme. Sessantaquattro chilometri a piedi per cinque giorni, con le notti accampati sulla via. La destinazione è la residenza del primo ministro, ritenuto pressoché da tutti in Israele il principale responsabile del disastro.

Se le immagini di Gaza devastata sui media israeliani sono accuratamente evitate, chi ha un ostaggio nella Striscia sa che la pioggia ininterrotta di bombe mette in pericolo anche i propri cari. In tanti chiedono comunque di continuare, di bombardare ancora, tanti altri sono consapevoli che solo un cessate il fuoco potrà consentire il rilascio di persone in vita, non di cadaveri. Nei giorni scorsi Hamas aveva parlato di qualche decina di uccisi tra gli ostaggi a causa dei raid israeliani. Conferme non ce ne sono, ma non stupirebbe.

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A INFUOCARE gli animi, però, è soprattutto il rigetto a prescindere di qualsiasi negoziato con Hamas. Almeno ufficialmente. Finora le varie proposte giunte a Tel Aviv via Qatar ed Egitto sono tornate al mittente. Ora uno spiraglio sembra aprirsi, forse frutto di una maggiore pressione da parte degli Stati uniti che martedì, parola di presidente Biden, davano ormai prossimo il rilascio di decine di ostaggi.

Sul tavolo Hamas ha messo la stessa richiesta delle scorse settimane: la liberazione delle donne e i minori palestinesi prigionieri nelle carcere israeliane e una tregua di 3-5 giorni, in cambio delle donne e i bambini ostaggio.

Ieri il team di mediatori di Doha (che operano in coordinamento con Washington) hanno dato conto dell’attuale contenuto del negoziato: circa 50 ostaggi civili in cambio di tre giorni di tregua, l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza e il rilascio di un numero non specificato di prigionieri politici palestinesi (donne e bambini).

Hamas – la cui leadership politica è da anni basata in Qatar, suo principale sponsor ufficiale e primo mediatore con Tel Aviv nelle scorse offensive – ha dato il proprio via libera, Israele non ancora. Secondo fonti qatarine, al movimento islamista palestinesi sarebbe stato richiesto anche di consegnare una lista completa degli ostaggi nella Striscia. Una richiesta che, secondo fonti diplomatiche occidentali citate ieri dalla Reuters, non sarebbe così facile da offrire in mezzo ai bombardamenti israeliani: gli ostaggi sono stati probabilmente distribuiti sul territorio e le difficoltà di comunicazione e di movimento potrebbero non solo rendere complicato compilare una lista ma anche convogliare le persone da liberare verso Rafah.

Alla Reuters è giunto il commento di Taher al-Nono, consigliere del capo di Hamas, Ismail Haniyeh: «Netanyahu sta rimandando e minando ogni progresso. Sfrutta la questione degli ostaggi per continuare l’aggressione. Non ha serie intenzioni di raggiungere un accordo».

IN UNA CONFERENZA stampa di ieri, il membro del gabinetto di guerra israeliano Benny Gantz sembra frenare sulla tregua: «Se anche ci venisse chiesto di mettere in pausa il combattimento per il rilascio degli ostaggi, non ci sarebbe alcuno stop e la guerra continuerebbe fino al raggiungimento dei nostri obiettivi». Diversa la versione dell’ex ministro israeliano Gideon Sa’ar che a Jewish News ha detto che un cessate il fuoco temporaneo è vicino.