Accademia disubbidiente
#ilmanifesto50 La ragione della lunga esistenza del manifesto è proprio in quella capacità, coltivata da una ricerca sulla propria identità, di dire «no». Il lavoro come palestra d’identità, una riunione di redazione inclusiva, tantissime donne, nuvole di fumo, nessuno esente dal parlare, nessuna sciocchezza perdonata
#ilmanifesto50 La ragione della lunga esistenza del manifesto è proprio in quella capacità, coltivata da una ricerca sulla propria identità, di dire «no». Il lavoro come palestra d’identità, una riunione di redazione inclusiva, tantissime donne, nuvole di fumo, nessuno esente dal parlare, nessuna sciocchezza perdonata
Al manifesto ho imparato. Molto di quello che so del giornalismo, molto di quello in cui ancora credo in politica, e abbastanza, quel che serve, di come si cresce.
Se dovessi oggi rispondere, 50 anni dopo, e i ricordi sono tutti vivissimi e colpiscono come un’imboscata, alla domanda «cosa è stato il manifesto direi “qualcosa di molto simile a un’Accademia militare”».
In quegli anni scapigliati, c’era un senso di ordine, di principio, che muoveva quell’esperienza. Un rapporto molto netto, verticale, benevolente ma indiscutibile, fra la generazione degli anziani (così ci apparivano allora, in realtà quarantenni) e i ventenni: il lavoro intellettuale come contenitore delle emozioni, e argine alle cadute ideologiche; il lavoro come mezzo della propria identità.
Palestra di queste dinamiche una riunione di redazione, nessuno escluso, tantissime donne, nuvole di fumo, senza la grazia di uno spazio ampio, affollati uno sull’altro, in silenzio richiesto, sotto osservazione, nessuno esente dal parlare, nessuna sciocchezza perdonata.
Ma chi era lì aveva già passato almeno un esame di resistenza alle avversità. Molti dei ventenni che erano in quella stanza avevano già «fatto» quel giornale, iniziando nel ‘69 a distribuire nelle scuole e nelle fabbriche i ponderosi numeri della Rivista il Manifesto, il cui primo numero uscito il 23 giugno del 1969 con il successo delle sue 75mila copie di vendita accelerò dentro il Pci la decisione di radiare il gruppo di dissidenti.
Impresa non facile per uno studente o un operaio accollarsi la lettura/distribuzione di quelle complesse idee di critica a un sistema, quello sovietico, che per i vari movimenti dell’epoca era già archeologia. Ma quei dissidenti lì amavano la complessità, non la semplificazione.
Aderire a quel gruppo allora divenne, per sé, un gesto di selezione di una tribù urbana, prima ancora che intellettuale. Non a caso, quando il gruppo politico prese la forma del quotidiano, l’unica virtù che non si coltivasse nella redazione fosse l’obbedienza.
La natura essenziale dell’esperienza del manifesto fu infatti la disobbedienza – al mito dell’Unione Sovietica, al centralismo democratico del Pci, e, più tardi, nel lavoro politico dei gruppi extraparlamentari (!), disobbedienza al pensiero unico dell’estremismo.
La non-ubbidienza era infatti prendersi il rischio, la libertà a tua scelta che non poteva essere regolata da nessuno. L’ubbidienza era l’opposto della sfida. E tutte le altre virtù che si coltivavano nel gruppo del manifesto erano la preparazione alla sfida, il momento per cui ti preparavi: quello in cui avresti detto «no».
Scegliere non per obbedienza, ma capendo i fatti. L’analisi, prima della predica ideologica. Questo era alla fine cosa imparavamo, per osmosi, in quelle eterne riunioni di redazioni quotidiane.
Sembra un ritratto sentimentale e dunque edulcorato questo che ho appena tracciato. Non lo è affatto. È al contrario una spiegazione dell’unica buona ragione per cui dobbiamo festeggiare questo anniversario.
Il manifesto fa 50 anni; e la sua età lo indica come l’unico dei fogli sopravvissuto dei molti che furono fondati in quel periodo di estrema innovazione e creatività del giornalismo, che partendo da sinistra esercitò la sua influenza anche sul mainstream editoriale.
La ragione di tale lunga esistenza, è proprio in quella capacità, coltivata da una ricerca sulla propria identità, di dire «no».
Il manifesto fu, nei giorni dell’Alcione della sinistra estrema, gli anni ‘60/’70, una voce elitaria, espressione di una cultura borghese criticata ma mai dimenticata, una voce indipendente, che persino negli anni orrendi del declino in cui il terrorismo trascinò la sinistra, non si fece attrarre nel vortice dell’uno o dell’altro punto di pressione.
In quegli anni eravamo visti, nelle piazze, nelle università, come un po’ fighetti, un po’ marginali. Un po’ eravamo sospetti di vicinanza eccessiva al Pci. Ma attraverso il quotidiano, che alla fine si rivelò la parte più incisiva di quella esperienza politica, pagò nel tempo essere rimasti legati ai fatti, più ancora che quello che avremmo voluto che fossero i fatti.
Un’abitudine che ha creato una lunga tradizione di eccellenti giornalisti; e preservato la funzione di un giornale in epoche molto diverse da quella in cui era nato.
Un grazie a Pintor, Rossanda, Castellina, Magri, Menapace, Parlato. Comunisti di nuovo conio. Persone oneste.
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