Saranno due le richieste di indagine che la Corte penale internazionale si troverà a breve sul tavolo in merito all’uccisione, lo scorso 11 maggio nel campo profughi di Jenin, Cisgiordania occupata, della giornalista palestinese di al Jazeera, Shireen Abu Akleh.

Una dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e una del network qatariota. A darne conto ieri a Londra sono stati i team legali chiamati a presentare i casi, affiancati da esperti internazionali. «Attendiamo la conferma dall’ufficio della Procura della Corte penale sulle azione che intende assumere», fa sapere lo studio legale Bindmans LLP.

IL GIORNO PRIMA l’Anp aveva reso noti i risultati dell’indagine condotta sulla morte di Abu Akleh: le prove dimostrano che l’esercito israeliano ha sparato per uccidere, ha dichiarato il procuratore generale Akram al-Khatib.

«È chiaro che uno dei soldati dell’occupazione ha sparato il proiettile che ha colpito Shireen Abu Akleh in testa», ha detto ricordando che la giornalista indossava la pettorina Press e l’elmetto. Un proiettile che corrisponde ai fucili da cecchini Mini Ruger.

ALLA BASE dei risultati stanno le testimonianze degli altri giornalisti presenti (di cui uno, Ali al-Samoudi, ferito), indagini sul luogo della sparatoria e analisi forensi. Secondo l’Anp, non c’erano combattenti palestinesi nelle vicinanze, come inizialmente affermato dall’esercito israeliano che aveva attribuito l’omicidio ai militanti presenti nel campo profughi (una posizione poi semi-sparita dalle dichiarazioni ufficiali, fino alla decisione di Israele, presa la scorsa settimana sulla base delle testimonianze dei soldati, di non aprire un’indagine per «assenza di atti criminali»).

Al contrario, ha aggiunto al-Khatib, l’esercito l’aveva vista e ha comunque sparato, colpendola alle spalle: tentava di fuggire dopo i colpi che avevano ferito al-Samoudi.

Identici risultati quelli raggiunti da un’inchiesta della Cnn, pubblicata pochi giorni fa. Utilizzando i video girati durante l’omicidio dai giornalisti presenti e dalle bodycam dei soldati israeliani, otto testimonianze, le analisi di esperti di armi da fuoco e le immagini satellitari, il network Usa indica nell’esercito israeliano il responsabile della morte di Abu Akleh: la giornalista, colpita da una distanza di 200 metri, si trovava di fronte ai militari, come mostrano cinque diversi video, l’analisi forense del rumore dei proiettili e le stesse dichiarazioni dell’esercito.

I COMBATTENTI PALESTINESI, sulla stessa direttrice, erano posizionati alle spalle dell’esercito, troppo lontano per poterla raggiungere con un proiettile. E in ogni caso non stavano sparando: in quel momento, alle 6.30 del mattino, non c’erano scontri armati in corso, come affermato da Tel Aviv.

C’era invece un gruppo di giovani palestinesi che si stava intrattenendo con i giornalisti, fumando e scherzando con loro (come documenta uno dei video, a riprova dell’assenza di scambi a fuoco). Poi, gli spari.

CHE SONO PROSEGUITI contro i giovani che tentavano di portare in salvo Shireen, ormai incosciente. «Il numero dei segni di proiettile sull’albero di fronte al quale stava Shireen – ha aggiunto Cobb-Smith, esperto britannico – provano che non si è trattato di un colpo partito per caso, è stata presa di mira».

I segni sono troppo vicini tra loro perché si tratti di colpi random. E lei troppo vicina ai cecchini israeliani, era visibile. Le hanno comunque sparato almeno quattro volte.

E ieri un 14enne palestinese, Ziad Ghoneim, è stato ucciso dall’esercito israeliano a Al-Khader, sud di Betlemme, durante delle proteste. Secondo testimoni, è stato colpito mentre cercava rifugio in una casa.