Non un libro dépassionnné come invocato da Jean-Yves Le Naour e Catherine Valenti (perché mai avrebbe dovuto esserlo?), ma un libro che finalmente riflette sul tema dell’aborto restituendone tutta la complessità storica e teorica e, soprattutto, sottraendolo a quell’atemporalità che ne ha a lungo segnato la percezione: L’aborto. Una storia di Alessandra Gissi e Paola Stelliferi (Carocci, pp. 260, euro 21). Perché certo le donne hanno sempre abortito ma in contesti radicalmente diversi per pratiche, regolamentazioni o penalizzazioni, modalità di narrazioni. E soprattutto, lungi dall’essere soltanto una questione privata, l’aborto è un fatto politico.

UNA CESURA fondamentale al riguardo è costituita dalla riflessione del medico igienista J. Peter Frank, attivo in Francia nella seconda metà del ‘700, che conia l’espressione «cittadino non nato», formula felicissima per indicare che la riproduzione sarebbe dovuta rientrare a tutti gli effetti tra le prerogative delle politiche statuali, poiché gli esseri «racchiusi nel grembo materno sono cittadini dello Stato». Questo approccio giunge al suo culmine in Italia durante il fascismo quando, come è noto, l’aborto diventa reato contro l’interesse dello Stato e viene inserito all’interno del codice penale Rocco al titolo X significativamente intitolato Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe. In verità l’aborto era già considerato reato nell’Italia liberale, e soprattutto molti medici, uno per tutti il ginecologo Luigi Maria Bossi, avevano teorizzato la rilevanza (se non l’obbligo) della maternità per la salute psicofisica delle donne, oltre che per la grandezza della nazione.

Il fascismo, dunque, aveva una solida tradizione culturale alle spalle e, dato fondamentale, quel celebre titolo X del Codice Rocco transiterà nell’Italia repubblicana senza colpo ferire e ancora una volta a sottolineare la continuità dello Stato e dei codici tra regime e Stato democratico. Per generazioni, è attivo un sistema di violenze inflitto sui corpi delle donne; più che ragazze, sono donne non giovanissime e già madri a ricorrere alle pratiche abortive: corpi su tavoli di marmo, decotti di prezzemolo, ferri da calza o uncinetti infilzati nell’utero, sonde mal gestite, emorragie non controllate. Il famoso interrogativo di Carla Lonzi «per il piacere di chi sto abortendo?» si erge al riguardo potente e cruciale.

MATURANO IN AMBIENTI LAICI e riformisti (a Milano nel 1953, e poi a seguire in altre città, viene fondata l’Aied) sia i temi di una maternità responsabile sia quelli della sovrappopolazione e si evidenzia come il divieto della propaganda dei mezzi contraccettivi – di eredità fascista – confligga con il diritto alla salute costituzionalmente garantito; sarà infatti nel 1971 la Corte Costituzionale ad annullarlo con un primo verdetto. Nuovamente nel 1975 la giustizia costituzionale con una storica sentenza sul reato di aborto si rivela decisiva nell’accogliere le spinte di mutamento sociale in quel momento ingabbiate in una rigida contrapposizione tra partiti e movimenti.

Il femminismo spariglia le carte ponendo la questione in termini di autodeterminazione delle donne e attivando soprattutto nelle periferie urbane un lavoro politico d’informazione, d’inchiesta, di denuncia, di self help del tutto inedito e capillare. Il mondo politico e intellettuale si divide: interessante la frattura tra alcune dirigenti, l’Udi e la rivista Noi Donne da un lato e la lunga afasia o i tanti balbettii del Partito comunista dall’altro; ancora più composito ovviamente il mondo cattolico che vede nelle sue componenti di base ampie insofferenze e vasti fermenti. Tra storici insabbiamenti e continui rinvii, il 22 maggio del 1978, il Parlamento approva la legge 194, che il successivo referendum promosso dal Movimento per la vita non riuscirà a cancellare. Il testo legislativo, frutto di una lunga e complessa mediazione politica, una sorta di «miracolosa alchimia», non nomina esplicitamente la parola chiave delle lotte femministe, autodeterminazione, ma inserisce l’interruzione volontaria di gravidanza (perifrasi che le autrici non prediligono a vantaggio del più chiaro termine aborto) di fatto tra le politiche della salute, in linea con una lunga tradizione italiana tenacemente ostile a riconoscere una chiara soggettività e una diversa declinazione dei diritti di cittadinanza alle donne.

Per questo «all’eterno ritorno» di un dibattito stantio è bene ridare centralità all’inviolabile libertà femminile in quanto libertà personale costituzionalmente garantita; anche perché, come ha ben scritto Luigi Ferrajoli, il divieto di abortire si configurerebbe come un obbligo alla maternità, un’imposizione a diventare madri contro la propria volontà. La possibilità di abortire è dunque un’immunità, un habeas corpus delle donne, una libertà da una coercizione. Per questo non è possibile retrocedere, per questo è un libro importante.

* La presentazione a Roma, da Tuba, sabato alle 18. Laura Schettini in dialogo con le autrici; introduce Cristina Petrucci.