A Rojava via i marines, arrivano i russi
E così Siria Le truppe americane si sono ritirate ieri, avanzano quelle di Damasco che entrano a Manbji. La città pattugliata dall'esercito di Mosca, sempre più decisivo nell'area. Si moltiplicano gli sfollati, si assottiglia la presenza di organizzazioni internazionali
E così Siria Le truppe americane si sono ritirate ieri, avanzano quelle di Damasco che entrano a Manbji. La città pattugliata dall'esercito di Mosca, sempre più decisivo nell'area. Si moltiplicano gli sfollati, si assottiglia la presenza di organizzazioni internazionali
Alla fine le truppe statunitensi hanno lasciato il nord della Siria: dopo giorni di tira e molla, ieri mattina fonti militari delle Forze democratiche siriane (Sdf) davano i marines fuori sia da Manbij che da Kobane. Poche ore dopo la coalizione a guida americana ha confermato: siamo fuori.
Al loro posto, a Manbij (la città che nell’agosto 2016 fu liberata dalle neonate Sdf, simbolo della ricchezza etnica e confessionale della Siria) sono entrate le truppe governative di Damasco che hanno assunto il controllo della base aerea di Tabqa, di due impianti idroelettrici e degli strategici ponti sull’Eufrate, bloccando di fatto il passaggio da ovest dei miliziani islamisti opposizione a Damasco e alleati di Ankara.
Non solo: a pattugliare le periferie di Manbij c’è l’esercito russo. Stivali moscoviti sul campo, segno della crescente superiorità russa nella regione. Sono chiamati a impedire – spiega il Cremlino – uno scontro diretto tra turchi e siriani e, dunque, il collasso del delicato equilibrio mediato da Mosca in questi anni di interventismo militare e diplomatico. Ma l’equilibrio è prima o poi destinato a implodere: l’occupazione di Rojava è l’ultima occasione per il presidente turco Erdogan, o vince o vede sfumare i sogni di gloria ottomana.
Per questo punta su Kobane, il simbolo della lotta curda allo Stato Islamico e del sistema politico di convivenza di Rojava, ai poli estremi del conservatorismo religioso e della concentrazione di potere economico di cui è espressione il partito di Erdogan, l’Akp.
Qui, a Kobane, il governo non è ancora entrato, lasciando in sospeso il destino della città. A differenza di Manbij, dove la presenza governativa ha dissuaso le milizie islamiste siriane filo-turche dall’assalto, e di Ras al-Ain (Sere Kaniye), dove ieri sono state le forze curde a respingere l’offensiva turco-islamista dopo una notte di duri combattimenti.
Con gli scontri e le bombe dal cielo, si moltiplicano gli sfollati. Almeno 275mila, questi i dati forniti ieri dalla Federazione autonoma del Nord. Aumentano anche i civili uccisi, almeno 160 dal 9 ottobre.
si assottiglia invece, ogni giorno di più, la presenza delle organizzazioni internazionali. Dopo Mercy Corps e l’italiana Un Ponte Per, costretta lunedì a ritirare lo staff internazionale, ieri a lasciare il nord della Siria è stato Medici Senza Frontiere.«La sofferenza umanitaria degli sfollati – dicono i vertici della Federazione – è aggravata dal taglio di tutti gli aiuti umanitari e dalla cessazione delle attività delle organizzazioni internazionali».
Intanto, dall’altra parte del confine, la polizia turca arrestava altri quattro sindaci dell’Hdp, il partito di sinistra pro-curdo. I sindaci di Hakkari, Yuksekova, Ercis e Nusaybin sono (ovviamente) accusati da Ankara di terrorismo. Sono contrari all’attacco contro Rojava.
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