Internazionale

A Rojava via i marines, arrivano i russi

A Rojava via i marines, arrivano i russiSoldati turchi fanno il simbolo dei lupi grigi, gruppo nazionalista di destra mentre attraversano il villaggio di Qirata, alla periferia di Manbij – Afp

E così Siria Le truppe americane si sono ritirate ieri, avanzano quelle di Damasco che entrano a Manbji. La città pattugliata dall'esercito di Mosca, sempre più decisivo nell'area. Si moltiplicano gli sfollati, si assottiglia la presenza di organizzazioni internazionali

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 16 ottobre 2019

Alla fine le truppe statunitensi hanno lasciato il nord della Siria: dopo giorni di tira e molla, ieri mattina fonti militari delle Forze democratiche siriane (Sdf) davano i marines fuori sia da Manbij che da Kobane. Poche ore dopo la coalizione a guida americana ha confermato: siamo fuori.

Al loro posto, a Manbij (la città che nell’agosto 2016 fu liberata dalle neonate Sdf, simbolo della ricchezza etnica e confessionale della Siria) sono entrate le truppe governative di Damasco che hanno assunto il controllo della base aerea di Tabqa, di due impianti idroelettrici e degli strategici ponti sull’Eufrate, bloccando di fatto il passaggio da ovest dei miliziani islamisti opposizione a Damasco e alleati di Ankara.

Non solo: a pattugliare le periferie di Manbij c’è l’esercito russo. Stivali moscoviti sul campo, segno della crescente superiorità russa nella regione. Sono chiamati a impedire – spiega il Cremlino – uno scontro diretto tra turchi e siriani e, dunque, il collasso del delicato equilibrio mediato da Mosca in questi anni di interventismo militare e diplomatico. Ma l’equilibrio è prima o poi destinato a implodere: l’occupazione di Rojava è l’ultima occasione per il presidente turco Erdogan, o vince o vede sfumare i sogni di gloria ottomana.

Per questo punta su Kobane, il simbolo della lotta curda allo Stato Islamico e del sistema politico di convivenza di Rojava, ai poli estremi del conservatorismo religioso e della concentrazione di potere economico di cui è espressione il partito di Erdogan, l’Akp.

Qui, a Kobane, il governo non è ancora entrato, lasciando in sospeso il destino della città. A differenza di Manbij, dove la presenza governativa ha dissuaso le milizie islamiste siriane filo-turche dall’assalto, e di Ras al-Ain (Sere Kaniye), dove ieri sono state le forze curde a respingere l’offensiva turco-islamista dopo una notte di duri combattimenti.

Con gli scontri e le bombe dal cielo, si moltiplicano gli sfollati. Almeno 275mila, questi i dati forniti ieri dalla Federazione autonoma del Nord. Aumentano anche i civili uccisi, almeno 160 dal 9 ottobre.

si assottiglia invece, ogni giorno di più, la presenza delle organizzazioni internazionali. Dopo Mercy Corps e l’italiana Un Ponte Per, costretta lunedì a ritirare lo staff internazionale, ieri a lasciare il nord della Siria è stato Medici Senza Frontiere.«La sofferenza umanitaria degli sfollati – dicono i vertici della Federazione – è aggravata dal taglio di tutti gli aiuti umanitari e dalla cessazione delle attività delle organizzazioni internazionali».

Intanto, dall’altra parte del confine, la polizia turca arrestava altri quattro sindaci dell’Hdp, il partito di sinistra pro-curdo. I sindaci di Hakkari, Yuksekova, Ercis e Nusaybin sono (ovviamente) accusati da Ankara di terrorismo. Sono contrari all’attacco contro Rojava.

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