A Mosca il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha cercato di ridurre il peso del colpo che l’esercito ha subito nel fine settimana attorno al centro strategico di Izyum, nella regione di Kharkiv. «La nostra operazione va avanti sino a quando avremo raggiunto tutti gli obiettivi», ha ripetuto in conferenza stampa. Lo stesso tentativo l’aveva fatto ventiquattro ore prima il generale Ivan Konashenkov parlando di scelta strategica per «raggruppare le forze» ai limiti del Donbass.

IL GROSSO DELLE TRUPPE è tornato in effetti sul confine tra le province di Donetsk e di Lugansk e il resto dell’Ucraina. Se questo movimento fosse legato a un percorso politico preciso si potrebbe parlare di strategia. Sul tavolo, però, non c’è alcuna trattativa aperta con le autorità ucraine, e sul campo i russi sono fuggiti praticamente senza combattere, lasciandosi alle spalle decine e decine di mezzi pesanti, tanto che, a Kiev, un consigliere del governo di nome Anton Gerashchenko ha scritto ironicamente sui suoi social network: la Russia è diventata il nostro primo fornitore di armamenti. Insomma, in termini militari, questa non è altro che una rotta.

In cinque giorni gli ucraini hanno liberato cinquecento chilometri quadrati di campagne e di villaggi che erano costati ai russi quattro mesi di combattimenti. Nella loro avanzata gli ucraini sarebbero persino riusciti a sconfinare nella regione di Belgorod, e quindi in pieno territorio nemico, con un raid che avrebbe fatto un morto e quattro feriti.

OLTRE ALLA TENACIA dei suoi soldati, oltre alle forniture militari ricevute dai paesi della Nato, l’esercito ucraino ha potuto contare su un fattore che in questa guerra diventa ogni giorno più significativo: l’intervento diretto degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Le agenzie di intelligence americane hanno fornito a Kiev informazioni decisive per la riconquista di Izyum, ha scritto il New York Times. Le informazioni riguardano gli spostamenti dei russi, la posizione degli arsenali, i cambiamenti nella catena logistica. La presenza sul terreno sempre più evidente di americani e britannici è uno degli elementi meno trattati, ma è quello che può condizionare con più forza i piani russi.

Dal Cremlino dicono: «Al momento non c’è alcuna possibilità di discutere con Kiev». Ancora più duro è stato l’ex presidente ed ex premier Dmitri Medvedev, cha ha messo la “capitolazione” del leader ucraino, Volodymyr Zelensky, fra le premesse necessarie a un possibile accordo. Medvedev non ha poteri concreti sullo sviluppo dei colloqui, ma le sue parole aiutano a comprendere l’umore negli ambienti di radicali di cui da qualche mese si è fatto portavoce.

MOLTI CHIEDONO con insistenza a Vladimir Putin, una risposta pesante alla controffensiva ucraina. Anche a costo di passare alla completa mobilitazione dell’esercito proclamando lo stato di guerra. A questa tendenza bisogna sommare l’iniziativa dei diciotto consigli locali che fra Mosca e San Pietroburgo hanno chiesto le dimissioni di Putin con l’accusa di tradimento.

Putin per adesso ha evitato con cura di usare il termine “guerra”. Sul piano interno la conferma di tutti e quattordici i governatori che nel fine settimana si giocavano il posto alle amministrative mostra la ferrea volontà di mantenere fermo il sistema.

Su quello della politica estera qualche novità potrebbe arrivare fra giovedì e venerdì dall’incontro in Uzbekistan con il collega cinese, Xi Jinping.

 

Soldati russi nel perimetro della centrale di Zaporizhzhia (foto Ap)

Sarà ora interessante osservare quali conseguenze avranno i fatti di Izyum sul resto del fronte, in particolare lungo la striscia di duecento chilometri fra le città di Zaporizhzhia e Kherson, alla foce del Dnepr. Proprio nei pressi di Zaporizhzhia, sotto gli occhi di due ispettori dell’Aiea, gli ingegneri russi hanno portato ad attività zero il sesto reattore della centrale atomica Energodar, l’ultimo che era rimasto in funzione. Uno dei responsabili della società Rosatom, Renat Karchaa, ha lasciato intendere che quella decisione è stata assunta per ridurre il rischio di una catastrofe nucleare.

È CHIARO A TUTTI, però, che l’intera rete dell’energia sia entrata a far parte degli obiettivi di guerra. Il ritiro dalla centrale di Zaporizhzhia, ha detto sempre Peskov, «non è in programma». In più i russi hanno colpito domenica notte due importanti centrali termiche, una a Kharkiv e una un poco più a sud, a Kramenchuk. Una parte del paese si trova da allora in stato di black out.

«La storia sistemerà tutto: avremo gas, luce, acqua e cibo, e tutto questo senza di te», ha detto domenica Zelensky, rivolgendosi a Putin, nel suo messaggio quotidiano alla nazione. Il che significa nessuna trattativa con Mosca sinché l’intera Ucraina sarà tornata libera.