A decine ieri si sono avvicinati al cratere fumante e colmo di macerie di un intero palazzo distrutto dalla bomba sganciata da un aereo israeliano sul campo di Nuseirat, nella zona centrale di Gaza. In silenzio, hanno provato a scorgere in quella voragine il corpo di qualcuno ancora in vita. Per 12 persone che al momento dell’esplosione erano nei pressi della moschea Hasan Banna non c’è stato scampo. Altre decine sono rimaste ferite, alcune gravi e con poche possibilità di salvezza a Gaza dove gli ospedali non sono più ospedali dopo quattro mesi e mezzo di offensiva israeliana. L’esercito dello Stato ebraico ha rilanciato la sua offensiva al centro e a nord della Striscia, in particolare a Zeitun e Shujaiye a est di Gaza city. Hamas non sembra affatto sul punto di crollare come affermano da giorni i comandi militari e il ministro della difesa israeliano Gallant. I suoi combattenti e l’apparato amministrativo, non appena i reparti corazzati israeliani arretrano, cercano di rioccupare alcune delle posizioni perdute nelle settimane passate. Si combatte di nuovo al nord, anche se il grosso dell’offensiva israeliana si concentra a sud, a Khan Yunis – l’ospedale Nasser, circondato da settimane, è in piena emergenza – ed è giunta alle porte di Rafah, l’ultimo rifugio per oltre un milione di civili.

Sono circa 29mila i palestinesi uccisi a Gaza, in gran parte civili, e altre migliaia di corpi si troverebbero sotto le macerie di case e palazzi abbattuti da bombe e missili. Un bilancio destinato a salire, anche se l’offensiva israeliana si fermasse ora, cosa improbabile alla luce delle ultime dichiarazioni del premier Netanyahu e di altri membri del suo governo. Ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine e del Johns Hopkins Center for Humanitarian Health negli Stati Uniti, calcolano in circa 8.000 i palestinesi di Gaza che probabilmente moriranno nei prossimi sei mesi per il crollo del sistema sanitario causato dall’attacco israeliano alla Striscia. Moriranno per le ferite provocate dai bombardamenti, per l’aumento delle malattie, per la mancanza di chemioterapie ai malati oncologici e cronici, per la diffusione di infezioni in un territorio devastato in cui gran parte della popolazione è sfollata, senza casa e vive nelle tendopoli nel migliore dei casi se non tra le macerie. I ricercatori allo stesso tempo lanciano un avvertimento: se i combattimenti non si fermeranno, almeno altre 85mila persone potrebbero morire entro l’inizio di agosto uccise dalla guerra, dalle malattie e dalle epidemie.

Un altro tentativo di dichiarare un cessate il fuoco immediato e definitivo a Gaza è naufragato ieri quando gli Stati uniti hanno esercitato di nuovo il diritto di veto per bloccare la bozza di risoluzione presentata dall’Algeria al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il testo ha avuto il sostegno di 13 dei 15 paesi membri del CdS, mentre il Regno unito si è astenuto. Si tratta della terza volta in cui Washington esercita il diritto di veto dal 7 ottobre. «Votare a favore di questa bozza significa sostenere il diritto alla vita dei palestinesi, opporsi significa sostenere la violenza brutale nei loro confronti», aveva detto prima del voto l’ambasciatore algerino alle Nazioni Unite, Amar Bendjama, facendo appello al senso di responsabilità del CdS e del rispetto di tante vite innocenti a Gaza. Gli Stati uniti hanno motivato il veto affermando che la risoluzione proposta da Algeri non avrebbe garantito la liberazione dei circa 130 ostaggi israeliani nelle mani di Hamas e altre organizzazioni a Gaza. Ma la decisione è la conferma che nonostante i forti contrasti emersi tra l’Amministrazione Biden e il premier Netanyahu in questi ultimi giorni, gli Usa continueranno a sostenere Israele, con la diplomazia e con armi e munizioni, e non imporranno soluzioni allo Stato ebraico, dal cessate il fuoco definitivo a Gaza alla dichiarazione unilaterale di uno Stato palestinese indipendente.

Da parte sua Washington ha presentato una sua bozza di risoluzione, in cui la dicitura «cessate il fuoco immediato» è sostituita con il termine «temporaneo». Finora gli Usa hanno appoggiato la possibilità di una «pausa umanitaria» per consentire la liberazione degli ostaggi israeliani – anche attraverso uno scambio con prigionieri politici palestinesi in carcere in Israele – e l’aumento degli aiuti umanitari per Gaza. L’Amministrazione Biden si oppone inoltre a una operazione militare israeliana su larga scala nella città di Rafah. Ai civili palestinesi non basta, chiedono la tregua immediata e definitiva. Tuttavia, la bozza di risoluzione americana ora sul tavolo è il massimo che gli Usa siano riusciti a produrre negli ultimi quattro mesi e mezzo per mostrare la propria insoddisfazione al governo Netanyahu che non ascolta nessuno, non cede a pressioni e non tiene conto delle posizioni di altri paesi. «Il fatto che gli Stati uniti stiano presentando questo testo è un avvertimento per Netanyahu» spiega Richard Gowan dell’International Crisis Group «È il segnale più forte inviato dagli Stati uniti: Israele non può fare affidamento sempre sulla protezione diplomatica americana». Lo scetticismo però è forte. Le trattative comunque sono in corso e la contrarietà all’attacco israeliano contro Rafah espressa nel testo è lo strumento con il quale la delegazione Usa prova ad avere l’appoggio alla sua risoluzione.

Ieri il Sudafrica ha di nuovo esortato la Corte internazionale di Giustizia (Cig) ad emettere un parere di «illegalità» (non vincolante) per l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi. Nel fine settimana una delegazione di osservatori israeliani è stata espulsa dalla cerimonia di apertura del vertice dell’Unione Africana ad Addis Abeba. Questo sviluppo è stato condannato con forza dal ministero degli esteri israeliano che ha accusato «paesi estremisti come Algeria e Sudafrica» di aver imposto la propria agenda all’Unione Africana.