63 anni fa la rivolta del Luglio ’60,  l’antifascismo è più attuale che mai
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63 anni fa la rivolta del Luglio ’60, l’antifascismo è più attuale che mai

Se era vero nei giorni in cui il presidente del consiglio Tambroni della Dc chiese l’appoggio del Msi, è vero ancora oggi, dopo che gli eredi del Movimento Sociale sono andati al governo

Pubblicato più di un anno faEdizione del 30 giugno 2023

Avendo lo sgradevole primato di aver inventato il fascismo, l’Italia ha anche quello di aver dato il via all’antifascismo, che prese le mosse a partire dal 1919 sotto forma di resistenza al dilagare dello squadrismo, alle aggressioni contro le Camere del Lavoro, le sedi dei giornali e delle organizzazioni socialiste.

L’antifascismo fu elaborazione teorica sulla natura del fascismo stesso, un fenomeno nuovo sullo scenario politico europeo, immaginazione di un futuro nel quale nazionalismi e fascismi non potessero ripresentarsi, piattaforma di unità tra forze politiche molto diverse in nome della lotta contro il comune nemico. Questa trama ebbe il suo culmine nella Resistenza armata, politica e civile sfociata nella Liberazione dell’aprile 1945, fondamento della Repubblica e della Costituzione.

Ebbe così termine una prima fase dell’antifascismo – l’antifascismo durante il fascismo – cui ne è seguita una seconda – l’antifascismo dopo la caduta del regime. Quest’ultima non solo non è stata un semplice prolungamento della prima, ma non è stata e non è meno importante. Significava liquidare i residui del fascismo presenti nella società e nelle istituzioni (un’opera come sappiamo rimasta incompleta), arginare e reprimere i rigurgiti culturali e politici del ventennio, elaborare una convincente storia di ciò che esso era effettivamente stato e aveva rappresentato nella storia nazionale.

Per certi versi cominciava allora la storia più complessa dell’antifascismo. Lo si vide bene di fronte alla formazione di partiti come il Movimento Sociale Italiano, che mimava il richiamo alle proprie radici mai rinnegate, le nascondeva nel simbolo di una fiamma perenne come la memoria del Duce. La formazione di questa forza residuale mascherata fu tollerata, giudicata preferibile a una sopravvivenza sotterranea meno controllabile, ma fu tenuta ai margini dell’area di governo con la formula del cosiddetto arco costituzionale.

Non erano passati quindici anni dalla fine della guerra quando il tentativo missino, complici frange del mondo democristiano, di rompere questo cordone sanitario diede luogo a una rivolta del popolo genovese (a Genova, medaglia d’oro della Resistenza si voleva imporre la celebrazione di un congresso del Msi presieduto da una figura famigerata del fascismo repubblicano genovese), socialmente connotata dall’unità tra proletariato di fabbrica, classe operaia portuale e ceto medio intellettuale, tra protagonisti della Resistenza ancora viva nella memoria e giovani leve dell’antifascismo militante, e politicamente guidata dalle forze di sinistra, i comunisti e i socialisti.

È quello che a Genova si ricorda e si celebra come il 30 giugno Sessanta, e che dilagò poi in tutta Italia, a cominciare dall’Emilia, dove costò molte giovani vittime, la polizia sparò uccidendo 11 persone. Con episodi indimenticabili come la carica dei militari a cavallo contro i manifestanti a Porta a San Paolo e una vittima a Palermo.

La lotta fu vittoriosa, e sembrò dare un colpo definitivo all’aspirazione neofascista di legittimazione. Ma non era così. Il fascismo non era definitivamente liquidato, rimaneva una carta di riserva e di complemento per il potere conservatore, continuava a serpeggiare nella scuola e nell’editoria, nella magistratura e nella burocrazia, nelle forze armate e in quelle di ordine pubblico. Lo testimonia un episodio di un anno dopo, apparentemente minore, ormai dimenticato ma altamente indicativo.

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È tornato alla luce grazie a una storica, Graziella Gaballo, e a un suo libro dedicato alla biografia di Ada Della Torre (1914-1986), donna ebrea, partigiana, insegnante, intitolata Le molte vite di Ada (Jocker, Novi Ligure 2022) L’episodio ha dell’incredibile. Avendo mandato una lettera privata all’editore Le Monnier per deplorare il carattere evidentemente apologetico della pagina di un libro di testo dedicata al regime fascista, fu denunciata dagli autori per diffamazione e condannata a un mese di reclusione (sia pure con sospensione della pena e la non iscrizione nel casellario giudiziario) 10.000 lire di multa e il risarcimento di 200.000 lire alla parte lesa.

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Dunque, nell’Italia nata dalla lotta antifascista un’insegnante antifascista veniva perseguitata, multata, ostacolata nel suo lavoro con processi protrattisi diversi anni, colpita da ammonizione del Ministero della pubblica istruzione per aver criticato la ricostruzione storica corriva del fascismo in un libro di testo per le scuole. A nulla valsero, sul momento, le difese pubbliche di illustri personaggi, da Alessandro Galante Garrone a Carlo Levi, da Tristano Codignola a Dina Bertoni Iovine.

Certo, la campagna di solidarietà anfifascista fu larghissima e alla lunga ebbe successo, costrinse l’editore a modificare le pagine contestate. Ma questo è il punto: l’antifascismo, scritto a chiare lettere nella Costituzione, doveva essere difeso e riconquistato ogni giorno con le manifestazioni di massa e con il puntiglio di un’insegnante educata quanto ostinata.

Era vero allora, lo è ancora oggi, dopo che gli eredi del Movimento Sociale sono andati al governo e dal governo, che vedono come potere assoluto, proclamano la replica di una biopolitica natalista a sfondo etnocentrico che nel fascismo ha avuto notoriamente la sua culla, e offrono come soluzione del problema migratorio la più classica delle esaltazioni nazionaliste: il respingimento e la difesa dei sacri confini della Patria, già costata in un colpo solo i 100 morti di Cutro per omissione di soccorso. Viva il 30 giugno, dunque. Perché l’antifascismo non solo non è diventato superfluo per scadenza di termini, ma al contrario più attuale che mai.

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