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25 luglio 1943, macerie del regime e le polveri di oggi

La riunione del Gran consiglio del fascismo del 25 luglio 1943La riunione del Gran consiglio del fascismo del 25 luglio 1943

Commenti Un 80° anniversario con un altro Benito (La Russa) seconda carica dello Stato e con i figli politici di Giorgio Almirante e Pino Rauti (fascisti a Salò) alla guida del governo

Pubblicato circa un anno faEdizione del 25 luglio 2023

Rosario Bentivegna: «In casa aspettavamo il Giornale Radio. A un certo punto la voce dello speaker annunciò: “Sua Maestà Vittorio Emanuele III ha accettato le dimissioni di Sua Eccellenza il cavalier Benito Mussolini”. Fu un’esplosione di gioia».
E così concludeva: «All’improvviso scoppiò il suono di un urlo strozzato “Viva la Libertà!”».

Le parole di Rosario Bentivegna, che dopo qualche mese sarebbe diventato uno dei comandanti dei Gruppo di Azione Patriottica del Partito Comunista italiano, restituiscono molti se non tutti i sentimenti che attraversarono l’Italia alla vigilia del crollo della dittatura fascista.

AL RE VITTORIO Emanuele III non era bastato lo sbarco Alleato in Sicilia del 10 luglio 1943 per deporre Mussolini. Per rompere gli indugi e far arrestare il duce del fascismo, cercando così di dissociare le proprie responsabilità da quelle del regime, era stato necessario l’impensabile: ovvero il bombardamento Alleato su Roma del 19 luglio con devastazioni e migliaia di morti.

La fine del regime, sancita dal voto di sfiducia a Mussolini del Gran Consiglio del fascismo il 25 luglio, segnava così l’avvio lento, contraddittorio e drammatico di quel lungo percorso che solo il 25 aprile 1945 avrebbe restituito libertà e dignità al popolo italiano.

Alla gioia per la fine dell’incubo fascista si sostituì presto la consapevolezza che «la guerra continuava al fianco dell’alleato tedesco» e (nonostante l’ineludibile prospettiva della «resa senza condizioni» poi sancita dall’armistizio dell’8 settembre) con essa già si iniziavano a porre le basi di un’altra «continuità», quella dello Stato che (con il correlato dell’impunità per i criminali di guerra e la mancata de-fascistizzazione delle istituzioni) avrebbe pesantemente condizionato lo sviluppo storico della nostra democrazia costituzionale nei decenni successivi la nascita della Repubblica.

D’ALTRO CANTO le stesse modalità del crollo della dittatura, che moriva non sotto la spinta di una ribellione popolare ma attraverso un’operazione politico-istituzionale condotta dalla monarchia di concerto con i gerarchi del regime, indicavano la natura assai complicata della transizione italiana dal fascismo alla democrazia.

CASA SAVOIA AVEVA aperto le porte del potere a Mussolini e ne aveva sostenuto l’aggressione alla Spagna repubblicana; le «imprese» coloniali in Africa; l’occupazione dei Balcani; la «pugnalata alla schiena» alla Francia e l’invasione dell’Urss. Aveva firmato l’ignominia delle leggi razziali e, prima ancora, avallato il regime persecutorio e carcerario contro i dissidenti politici antifascisti. I conti con quella monarchia complice e vile (capace di scappare da Roma all’annuncio dell’armistizio) sarebbero poi stati regolati con il voto a suffragio universale nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946.

Del senso e del significato di quegli eventi, a ottant’anni da quel 25 luglio, poco sembra essere rimasto nello spazio pubblico e nella coscienza civile del Paese.

DA UN LATO PERCHÉ i mancati conti con il fascismo hanno finito per sedimentare un lascito passivo rispetto a quella storia. Dall’altro perché le eterne classi dirigenti del Paese non solo si acconciano rapidamente ai tempi nuovi ma lo fanno sempre nell’ottica dell’elusione o dell’aperto contrasto della Costituzione (le ormai celebri «riforme di struttura») che di quel decisivo tornante della storia nazionale rappresenta la più grande eredità.

L’ITALIA GIUNGE a questo anniversario della caduta del regime con un altro Benito (La Russa) a ricoprire la seconda carica dello Stato e con i figli politici di Giorgio Almirante e Pino Rauti (fascisti a Salò) collocati alla guida del governo e nelle posizioni apicali delle istituzioni nate dalla Resistenza dalle quali attaccano l’azioni partigiana di Via Rasella (La Russa); distorcono l’identità politica delle vittime delle Fosse Ardeatine (Meloni); celebrano la nascita del partito post-saloino Msi (Isabella Rauti e La Russa); illustrano le «missioni civilizzatrici» del fascismo in Africa (il viceministro degli Esteri Cirielli); evocano con il ministro Lollobrigida la «sostituzione etnica» parlando di migranti.

IL TUTTO DECLINATO sulla misura politica del «sovranismo» della Nazione che toglie sovranità al popolo nei suoi diritti fondamentali (dal lavoro alle donne; dai diritti sociali e civili fino a quelli dei migranti). Un sovranismo che disconosce l’antifascismo come radice storica della democrazia e agisce di conseguenza, operando come alimento della guerra avvolta dalla propaganda dell’oltranzismo atlantico.

Recuperare la storia della fine della dittatura, sottraendola a soffocanti retoriche, significa reinterpretarla in chiave di iniziativa politica e democratica. D’altro canto fu questo il senso che dettero a quel giorno le donne e gli uomini della Resistenza come Bentivegna che, sorridendo poco prima di impugnare le armi per liberare il Paese, ricordava che «il 25 luglio 1943 fu il giorno più bello della mia vita. Dopo quello della mia prima comunione».

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