14 cliniche distrutte: negli ospedali non c’è più posto per i feriti
«È la prima volta che mi trovo di fronte a una simile catastrofe». È con evidente ansia che Aed Yaghi, medico e direttore della Palestinian Medical Relief Society, riassume la gravità della situazione sanitaria a Gaza. La Pmrs è un’organizzazione non governativa che si definisce «gruppo di medici e operatori sanitari palestinesi che cercano di integrare le infrastrutture sanitarie decadute e inadeguate causate da anni di occupazione militare israeliana». Alla sua guida, Yaghi ha vissuto l’esperienza delle ripetute aggressioni alla Striscia da parte di Israele, non è nuovo a queste situazioni.
«QUESTA VOLTA è diverso, è un’altra cosa», continua a ripetere desideroso di trasmettere ciò che sta vivendo. Mentre stiamo parlando al telefono, nel tardo pomeriggio di ieri, i palestinesi uccisi sono 1.500, circa 6.000 i feriti, di cui più della metà bambini e donne.
Sono anni che il ministero della sanità di Gaza e l’Oms lanciano segnali di allarme per il progressivo e rapido deperimento del sistema sanitario della Striscia, estremamente frammentato in un settore governativo privo di autorevolezza, nell’Unrwa (l’agenzia Onu responsabile dei servizi sanitari e sociali dei rifugiati, il 70% della popolazione) progressivamente sotto-finanziata, e varie ong di diversa appartenenza.
Nel settembre scorso 250 dei farmaci essenziali (il 48% della dotazione) erano praticamente assenti dagli scaffali del Central Drug Store mentre 218 dispositivi medici essenziali monouso (66%), erano segnalati con scorte pari a zero. Martedì scorso il portavoce dell’Oms ha dichiarato che, nonostante le procedure di emergenza, gli ospedali «sono al di là delle loro capacità», non sono rimaste forniture mediche a Gaza. Sono inoltre avvenuti 13 attacchi aerei israeliani contro strutture sanitarie che «hanno provocato la morte di sei operatori sanitari (tra cui un medico), il ferimento di quattro, il coinvolgimento di nove ambulanze e di otto strutture sanitarie». Quattordici le cliniche distrutte.
IERI, QUINTO GIORNO di guerra, 6mila feriti sono stati trasportati con ogni mezzo a disposizione nei 14 ospedali governativi e negli 11 delle varie ong, che in totale possiedono circa 2.300 posti letto. I 42 letti di terapia intensiva sono completamente occupati e il personale lavora h24. I feriti non gravi vengono riferiti alle rispettive abitazioni (se ancora esistenti) per poi essere ricuperati quando è disponibile un’ambulanza. Se non è difficile immaginare l’angoscia vissuta dai pazienti che si trovano privi di assistenza all’arrivo in ospedale, sono forse ancora più drammatiche le conseguenze della chiusura avvenuta martedì dell’unica centrale elettrica della Striscia rimasta funzionante in questi giorni.
Lo scenario che si prospetta è desolante con gli ospedali non in grado di eseguire interventi chirurgici salvavita, l’interruzione delle operazioni di dialisi per più di mille pazienti (tra cui più di 30 bambini) destinati a morte certa, l’arresto dei servizi di banca del sangue, l’impossibilità di svolgere procedure salvavita per pazienti comuni (come cateterismo cardiaco) e di conservare medicinali e vaccini per i bambini, il blocco degli incubatori per i neonati. Anche servizi apparentemente meno urgenti vengono a risentirne come i servizi diagnostici (tac, Risonanza magnetica), i servizi igienico-sanitari e la fornitura di acqua alle case, con gravi ripercussioni sulla salute pubblica e rischio di epidemie. È di ieri la notizia dello stop al funzionamento delle celle frigorifere a causa dell’interruzione di elettricità. Yaghi chiude la telefonata: lo hanno chiamato in ambulanza.
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